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Saggio

Un affresco sulle nuove 'milestones' del concordato preventivo

Massimo Fabiani, Ordinario di diritto commerciale nell'Università degli Studi del Molise

6 Ottobre 2022

Il lavoro vuole enunciare diffusamente e tuttavia in modo sintetico le principali novità del concordato preventivo, specie quelle che rappresentano le pietre miliari dell’istituto che merita di essere ampiamente ripensato nei suoi snodi cruciali. La trattazione seguirà un ordine rovesciato rispetto a quello del codice perché dapprima saranno esaminate le questioni di fondo e i profili sostanziali mentre nella seconda parte saranno prese in considerazione alcune tematiche del processo.
Oltre a quelle tracciate vi sono molte altre disposizioni nuove che però attengono più alle tecnicalità (pensiamo alle regole sui contratti pendenti) che all’inquadramento di sistema e per queste lacune potranno sopperire le relazioni che si susseguiranno nelle due giornate del Convegno.
Riproduzione riservata

Sommario:

1 . La storia del concordato

2 . Il concordato nella legge del 1942

3 . Esposizione sintetica della struttura del concordato

4 . L’irrompere dell’abuso dello strumento concordatario

5 . Il concordato come alternativa alla liquidazione giudiziale

6 . L’autonomia negoziale nel concordato

7 . Il contratto nel concordato

8 . La tutela dei creditori e la sistemazione della crisi

9 . Par condicio e concorsualità

10 . Giustificazione delle classi

11 . Distinzione tra domanda, piano e proposta

12 . Modelli di concordato

13 . Concordato con liquidazione

14 . Concordato con assuntore

15 . Concordato in continuità

16 . Il piano di continuità

17 . I vantaggi della continuità

18 . Le classi

19 . I creditori interessati

20 . La proposta

21 . I vincoli da graduazione

22 . La proposta ai creditori privilegiati

23 . Tempi di adempimento e moratoria

24 . La proposta ai creditori chirografari

25 . Approvazione del concordato

26 . Il controllo del giudice ai fini dell’omologazione

27 . Omologazione e operazioni straordinarie

28 . Il concordato delle società

29 . La partecipazione del socio al voto

30 . Le classi dei soci

31 . Il concordato di gruppo

32 . Il consolidamento processuale

33 . L’autonomia delle masse

34 . I piani di gruppo

35 . La tutela nei piani di gruppo

36 . La domanda di accesso

37 . Gli effetti

38 . La domanda con riserva

39 . Effetti della domanda con riserva

40 . Procedimento pre-apertura

41 . La decisione del tribunale

42 . Il giudizio di omologazione

43 . L’oggetto

44 . Il processo

45 . Le opposizioni

46 . La sentenza

1 . La storia del concordato
La trattazione sistematica del concordato preventivo deve fare, necessariamente, i conti con un istituto cangiante che a partire dal 2005 in avanti ha subito profonde trasformazioni che nel corso del tempo si sono realizzate secondo traiettorie, spesso, oblique, al punto da rendere assai complesso fornirne una ricostruzione unitaria. Le modifiche al telaio del concordato preventivo apportate dall’ultima versione del codice della crisi sono così profonde da minare alcuni dei paradigmi di riferimento come il principio di maggioranza.
Il concordato è uno strumento (è incluso tra gli strumenti declinati nell’art. 2 lett. m bis CCII), un procedimento (si snoda attraverso più atti di parte e del giudice) e una procedura concorsuale (realizza il soddisfacimento dei creditori secondo una regola di distribuzione delle risorse) rivolto a trovare una soluzione alla crisi dell’impresa. Assieme al piano attestato di risanamento e al piano e agli accordi di ristrutturazione dei debiti assolve alla medesima funzione e cioè quella di risolvere [recte, cercare di risolvere] la crisi dell’impresa mediante il ricorso ad uno o più accordi fra debitore e creditori, sebbene con regole fortemente differenziate.
Il concordato ha subito una mutazione strutturale, posto che in passato era l’unica alternativa al fallimento, mentre ora compete anche con altri strumenti regolativi della crisi.
A partire dal 2012, complice l’ennesima riforma della legge fallimentare, si è assistito ad una vera e propria esplosione delle domande di concordato preventivo e, di poi, si cercherà di offrirne una spiegazione; è divenuta la procedura-madre per le imprese di dimensioni medio-grandi, surclassando per importanza (ma non per numerosità) anche la procedura liquidatoria. 
La storia del concordato risale al 1903 perché nel Codice di Commercio gli artt. 819-829 contenevano, solo, la disciplina dell’istituto della “moratoria”. Nell’idea originaria del legislatore, dunque, il concordato preventivo doveva apparire come una ‘procedura mite’, utile a premiare il debitore corretto ma sfortunato, idonea a salvaguardare le posizioni dei creditori e a sollevarli da responsabilità nella causazione del dissesto, funzionale a consentire il miglior svolgimento  del traffico e delle relazioni commerciali, coerente con l’interesse pubblico insito nell’impedire i concordati amichevoli espressione di comportamenti illeciti e nell’evitare costose e inefficienti procedure di liquidazione giudiziale. 
L’attribuzione al solo debitore della scelta di accedere al concordato fu la ragione per la quale si affermò che la domanda di concordato era l’esplicazione di un diritto soggettivo rivolto a far risolvere il dissesto con un accordo collettivo piuttosto che con la liquidazione fallimentare, tanto è vero che la domanda di liquidazione giudiziale era qualificata al modo di una domanda riconvenzionale pregiudiziale. Lungo il corso della vigenza della legge del 1903, risultava dominante la teoria contrattuale costruita attorno all’idea, poi di recente ripresa ai nostri giorni, che i contraenti fossero da un lato il debitore e dall’altro lato la comunità dei creditori. Il patrimonio restava affidato al debitore, pur se sotto la vigilanza del commissario e del giudice delegato; l’amministrazione dell’impresa era attribuita, ancora, al debitore ma con l’obbligo di conservarne l’integrità, al modo di un sequestratario dei propri beni. Il provvedimento di omologazione veniva assunto come condicio iuris di efficacia dell’accordo già stipulato fra debitore e creditori, condizione dovuta all’esigenza di garantire tutela anche ai creditori dissenzienti, tale da potersi solo giustapporre all’atto di autonomia negoziale senza alcuna capacità di intervenire con modificazioni.
2 . Il concordato nella legge del 1942
La principale novità contenuta nella disciplina del concordato del 1942 (anticipata in parte dalla L. 10 luglio 1930, n. 995) si racchiudeva nella previsione dell’inclusione della cessione dei beni quale strumento di soddisfazione del ceto creditorio, divenuta sin da subiton usuale nella prassi.
Tuttavia, i profili etici erano ancora marcati e si giustificava il sacrificio dei creditori anche con la meritevolezza del debitore, perpetuandosi, così, il ‘detto’ dell’imprenditore ‘onesto ma sfortunato’.
Al cospetto di una letteratura tendenzialmente orientata sulla lettura contrattuale del concordato, nel corso degli anni si faceva, però, sempre più spazio una giurisprudenza che valorizzava in misura maggiore la componente processual-pubblicistica, cui è seguito l’approdo verso la teoria mista per cui all’incontro di volontà fra debitore e creditori si sovrapponeva l’omologazione del tribunale, una omologazione che assumeva carattere dominante laddove si faceva notare come il diniego di omologazione potesse essere disposto dal giudice anche contro una diversa unanime volontà dei creditori. 
Di fronte alla procedura di fallimento organizzata in vista della liquidazione dell’impresa e della destinazione del ricavato monetario al soddisfacimento dei creditori, l’atteggiarsi del concordato preventivo come mero strumento per evitare il fallimento e da utilizzare solo per i debitori meritevoli, poneva in un cono d’ombra l’elemento oggettivo costituito dall’impresa e dai suoi interlocutori. Il salto di qualità negli interventi sulla crisi d’impresa si è compiuto quando si è apprezzata la distanza fra imprenditore e impresa. Una distanza che si ritrova, anche, nel concordato preventivo impostato con un piano di continuità aziendale in cui il valore sia trasferito a terzi.
Il ruolo assegnato all’autonomia privata risponde ad una visione meno autoritaria di una liquidazione coattiva, ma quando si è consapevoli che la liquidazione giudiziale è, per sua natura, un luogo di conflitti fra una comunità di consociati ben più ampia di quella costituita da creditori e debitore, non si può non convenire sul fatto che l’ingresso delle regole della ‘autonomia privata’ nella gestione dell’insolvenza rimane un mezzo per la disciplina della crisi in una cornice pubblicistica delle procedure concorsuali non ancora obliterata. 
Sono proprio gli strumenti della negozialità ad essere asserviti al funzionamento delle procedure concorsuali, in vista della ricerca di un equilibrio fra esigenze del mercato ed esigenze di tutela di una comunità di soggetti che pur coinvolti nel dissesto non operano secondo le leggi del mercato. 
3 . Esposizione sintetica della struttura del concordato
Gli studiosi hanno imparato a collocare il concordato preventivo nel catalogo dei ‘benefici’ ma, ormai da tempo, l’aspetto premiale appare decisamente marginale rispetto al processo di oggettivizzazione del concordato. 
In passato molto si discuteva in ordine al requisito della meritevolezza (oggettiva o soggettiva) del debitore; il lato etico dell'imprenditore assume, ora, una connotazione diversa perché se la condotta può essere valutata dai creditori al momento della manifestazione del voto, è pur vero che solo la maggioranza dei creditori (e una maggioranza solerte e non apatica) può far resuscitare il giudizio etico disapprovando il concordato. 
Al sistema poco interessa che un accordo venga stipulato da un imprenditore immeritevole e ciò perché sopravanzano nuovi valori. Questo nuovo valore non può che essere il dato oggettivo del raggiungimento di un accordo fra debitore e suoi creditori, sebbene un accordo mediato dalla formazione di una maggioranza il che rende complesse le regole per la formazione di questa maggioranza. 
Per capire quale sia l’essenza del concordato e per evitare che la descrizione dell’istituto sia artefatta da una pre-cognizione di matrice ideologica, è opportuno far leva su alcune precise regole che germinano dagli artt. 84-120 quinquies CCII.
In primo luogo, l’art. 84 CCII nel suo incipit ci dice che lo strumento del concordato è offerto all’imprenditore che si trova in stato di crisi o di insolvenza
In secondo luogo, la stessa disposizione contiene un esplicito riferimento al fatto che l’imprenditore può (i) proporre un concordato preventivo e (ii) la proposta si basa su un piano che deve realizzare il soddisfacimento dei crediti in misura non inferiore a quella conseguibile nel caso della liquidazione giudiziale.
Negli artt. 44, 47, 106, 109 e 112 CCII vengono, poi, disciplinati i poteri del tribunale, mentre negli artt. 119 e 120 CCII si stabilisce che la risoluzione e l’annullamento del concordato preventivo presuppongono che ne sia fatta richiesta dai creditori o dal commissario giudiziale. 
Questo è il quadro di riferimento essenziale dal quale si debbono trarre i principi che, a loro volta, consentano di stabilire cosa sia il concordato preventivo. 
Per accedere al concordato non è più necessario che l’imprenditore sia in grado di offrire in deposito le scritture contabili regolarmente tenute. Non è neppure necessario che sia regolarmente iscritto nel registro delle imprese. Al tribunale non è più affidato un sindacato sulla meritevolezza dell’imprenditore.
Da questa rassegna di nuove regole, si può enunciare un primo principio: il concordato preventivo non è uno strumento posto a disposizione dell’imprenditore onesto e sfortunato e non è un beneficio che la legge accorda solo a chi lo merita.
A questa conclusione è lecito pervenire pur se nella disciplina del concordato restano alcune disposizioni che, direttamente (artt. 44 e 106 CCII) o indirettamente (art. 120 CCII) evocano la nozione di frode e quindi ricollocano nel circuito un tema che attiene ai profili soggettivi o comportamentali.
Tuttavia, è agevole notare che la rilevanza della frode assume un significato tutt’affatto diverso: non si tratta di penalizzare il comportamento del debitore che abbia compiuto atti riprovevoli (e cioè, nell’ambiente concorsuale quelli che siamo abituati a qualificare atti pregiudizievoli ai creditori), ma di sanzionare chi li ha celati ai creditori (frode soggettiva), ovvero di chi ha compiuto atti in funzione di pervenire ad una situazione che i creditori siano costretti a subire come l’unica per loro conveniente (frode oggettiva).
Viene, cioè, esaltato il profilo della trasparenza e della corretta rappresentazione delle dinamiche dell’impresa in modo che ai creditori possa essere affidato il compito di valutare, in modo informato, se prestare il consenso al concordato o se rifiutarlo, valutando (sempre che lo vogliano) anche il profilo della meritevolezza. Una tale impressione è confermata in modo esplicito dai doveri di informazione che gravano sul debitore: (i) si pensi all’onere di indicare nel piano le azioni risarcitorie e recuperatorie esperibili nonché le azioni eventualmente proponibili solo nel caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale e le prospettive di realizzo (art. 87 CCII); (ii) si pensi all’onere del deposito di una relazione riepilogativa degli atti di straordinaria amministrazione compiuti nel quinquennio anteriore alla domanda (art. 39 CCII); (ii) ed ancora, si vedano quali attività di controllo sono affidate al commissario giudiziale (art. 105 CCII). 
In disparte, per ora, l’individuazione dei poteri che la legge assegna al tribunale, è chiaro che la facoltà attribuita al debitore di risolvere la crisi con lo strumento del concordato preventivo presuppone una ben precisa ‘regola d’ingaggio’, in un certo senso già anticipata nella eventuale precedente composizione negoziata: il debitore può proporre ai creditori le più diverse e atipiche soluzioni ma in un contesto di piena trasparenza perché la legge vuole che l’accordo che fonda l’omologazione sia frutto di scelte consapevoli.  Quando vengono in giuoco i diritti dei creditori occorre essere molto cauti nell’affidare la tutela al principio di maggioranza e ciò per la semplice ragione che la comunità dei creditori è una comunità imperfetta; se, però, si vuole perseguire un risultato concordato la regola di maggioranza non sembra superabile da altre metodologie di formazione del consenso. La circostanza che la maggioranza che si forma ai fini dell’approvazione della proposta concordataria sia, a sua volta, una maggioranza imperfetta perché calcolata anche in termini non assoluti, induce a elevare a forza portante del concordato preventivo i valori della informazione, della trasparenza, della correttezza (tutti valori non astratti ma richiamati espressamente nell’art. 4 CCII) che debbono essere intesi con grande serietà perché, appunto, segnano il limite della accordata preferenza istituzionale alle soluzioni diverse dalla liquidazione giudiziale (art. 7 CCII). 
L’ulteriore conferma della decisività di questi valori la si desume dalla previsione degli effetti della presenza (i) del conflitto di interessi ai fini del voto, (ii) dai limiti alla espressione del voto, (iii) dai doveri che anche i creditori devono rispettare.
L’assoluta rilevanza delle regole del giuoco in termini di trasparenza giustifica, altresì, il fatto che tanto la revoca del concordato (art. 106 CCII) quanto l’annullamento (art. 120 CCII) sono sanzioni che prescindono dall’esclusiva disponibilità dei creditori perchè si fondano anche su iniziative officiose in misura coerente col fatto che la manifestazione di voto non deve essere inquinata da difetti informativi, sì che la sanzione reprime, appunto, questi difetti. 
La delicatezza dei diritti coinvolti reclama che in assenza di accordi individuali e di soddisfacimento integrale dei non consenzienti (caso tipico quello degli accordi di ristrutturazione) quando viene espropriato il diritto di credito sia necessaria una forma di eterotutela che ovviamente andrà gradatamente invocata in relazione a situazioni diverse ma con il limite, da ritenere invalicabile, della autonomia delle parti sulla valutazione delle condizioni economiche della proposta; diversamente, e cioè se si desse importanza al giudizio del tribunale sulla convenienza del concordato (in assenza di doglianza da parte dei creditori) si finirebbe con il restaurare un controllo pubblico sull’economia, di per sé non impraticabile ma in un contesto assai lontano da quello attuale.
4 . L’irrompere dell’abuso dello strumento concordatario
Le considerazioni svolte nel § precedente ci consentono di smarcare un tema che ha molto appassionato gli interpreti e soprattutto la giurisprudenza nell’ultimo decennio. Secondo una tesi diffusa lo strumento concordatario dovrebbe essere guardato con molta circo­spezione in quanto tramite esso potrebbero essere perseguiti fini fraudolenti, tant’è che la categoria impiegata per reprimere questi (supposti) comportamenti illeciti sarebbe quella dell’abuso del diritto.
Il tema dell’abuso ha fatto breccia perché lo si è invocato per cercare di restituire ai giudici un controllo di merito sulla proposta che le regole formali escludono; vi è stato, però, un unico orizzonte sull’uso abusivo del concordato perché la lente d’ingrandimento è stata rivolta a senso unico verso il debitore. Viceversa, se in modo forse ambizioso, eleviamo i valori della informazione, della trasparenza, della correttezza a pilastri del nuovo corso concordatario, non abbiamo più bisogno di rifugiarci sotto l’ombrello protettivo della figura dell’abuso del diritto e, più semplicemente, facendo riferimento ai principi cardine della nuova concorsualità, possiamo stroncare comportamenti – da chiunque provengano – non allineati ai valori del codice della crisi: ciò potrà accadere sul versante delle responsabilità quando la violazione dei doveri si accerti ex post ed anche sul versante della stessa percorribilità dello strumento concordatario quando tale accertamento sia praticabile ex ante.
Vi è stata una (non ancora sopita) palese crisi di rigetto verso i concordati influenzata dalle spesso modeste (talora tracimanti in irrisorie) promesse di soddisfacimento rivolte ai creditori, ma il dato empirico davvero preoccupante è stato quello dell’elevato indice di insuccessi: un moderno sistema di regole deve indirizzarsi, proprio, a favorire il successo delle operazioni di ristrutturazione a base concordata.
5 . Il concordato come alternativa alla liquidazione giudiziale
Un tempo lo scopo che muoveva il debitore nell’avanzare la domanda di concordato preventivo era quello di evitare la dichiarazione di fallimento e la natura preventiva del concordato era declamata là dove si stabiliva che la domanda poteva essere presentata sino a che non fosse stato dichiarato, appunto, il fallimento.
Ora le regole sono cambiate: è venuta meno l’alternativa “meritevolezza nel concordato” / “sanzione nella liquidazione giudiziale”: il debitore con lo strumento del concordato vuole regolare la propria crisi che potrebbe, anche, non coincidere con lo stato di insolvenza; gli effetti che derivano dal concordato sono molteplici e tali da non poter essere assorbiti dal solo impedimento alla dichiarazione di liquidazione giudiziale; la responsabilità per fatti di bancarotta permane anche con l’apertura del concordato preventivo (art. 341 CCII), considerato che le nuove esimenti di cui all’art. 324 CCII hanno uno spettro applicativo limitato alla bancarotta preferenziale e alla bancarotta semplice; con il concordato preventivo permane il rischio delle azioni di responsabilità sociale e nemmeno pone gli atti compiuti dal debitore al riparo dall’azione revocatoria ordinaria.
Il mutamento di cornice dovrebbe, quindi, rafforzare l’idea che la scelta dell’imprenditore di accedere al concordato riflette la volontà (più virtuosa, perché rivolta ai terzi e non intesa in senso egoistico), di offrire ai creditori un’uscita dignitosa dalla crisi. Non possiamo più parlare di uscita migliore (benché solo in senso relativo) perché la sola assenza di pregiudizio (nei concordati non liquidatori) è reputato un obiettivo da premiare
Il concordato, dunque, serve per procurare ai creditori la loro soddisfazione, visto il limpido incipit dell’art. 84 CCII. Il concordato, inteso come procedimento e come procedura, trova la sua causa nella determinazione del debitore di regolare la crisi dell’impresa secondo lo schema delle regole sostanziali e processuali del concordato, vale a dire quelle del ‘concorso concordatario’, di cui è fattore decisivo e insopprimibile l’approvazione dei creditori. A sua volta, il patto di concordato concluso tra debitore e creditori trova la sua causa corrispettiva in un negozio di scambio nel quale l’obbligazione a carico del debitore è quella di procurare ai creditori un certo grado di soddisfazione, mentre l’obbligazione a carico dei creditori è quella di liberare il debitore per la parte non soddisfatta del credito.
Il debitore può decidere di chiedere ai creditori, sotto la protezione del tribunale, la disponibilità a trattare i loro crediti globalmente secondo le regole del concorso concordatario. Un concorso anfibio nel quale si compenetrano, spesso con risultati asimmetrici, regole della continuità aziendale con regole della liquidazione espropriativa: queste regole, però, rilevano sul piano della programmazione (piano concordatario), sul piano della distribuzione delle risorse (proposta), ma non impattano sul patto di concordato che resta sempre lo stesso perché muta la dimensione dell’obbligazione ma non muta la qualità dell’obbligazione. 
Il soddisfacimento dei creditori è oggetto dell’obbligazione a carico del debitore; il soddisfacimento, però, non deve essere inteso, sempre, come adempimento in denaro; infatti, anche nella proposta di concordato liquidatorio (art. 84 CCII) si prevede il soddisafcimento e non il pagamento (come prevedeva la legge fallimentare). In astratto si potrebbe assumere che essendo il soddisfacimento l’esito di una valutazione soggettiva del creditore, questo creditore potrebbe ritenersi soddisfatto anche non ricevendo nulla; in verità esiste un limite ben preciso perché nell’art. 84 CCII si stabilisce che la proposta (con piano di continuità) deve indicare l’utilità, economicamente misurabile, promessa al creditore; nell’art. 87 CCII si prevede che nella domanda il debitore deve indicare perché la proposta concordataria è preferibile rispetto alla liquidazione giudiziale; nella proposta di concordato con piano liquidatorio debbono essere apportate risorse aggiuntive rispetto a quelle consegubili dalla liquidazione. Una valutazione complessiva di queste disposizioni porta a concludere che la proposta del debitore deve, sempre, includere un’offerta di una utilità misurabile in concreto a ciascun creditore; questo è l’elemento comune a tutte le proposte ed a prescindere dal tipo di piano concordatario.
6 . L’autonomia negoziale nel concordato
La domanda di concordato preventivo è ancora espressione di autonomia negoziale, ma le innovazioni che hanno investito le norme concordatarie debbono indurre cautela.
La proposta si rivolge ai creditori e ciascuno di loro non manifesta una adesione o un dissenso individuale ma partecipa all’espressione di una volontà dell’intero ceto dei creditori. L’incontro di volontà sulla proposta concordataria è asimmetrico: da un lato il debitore e dall’altro lato un gruppo, non organizzato, formato da creditori – ma non tutti visto che ve ne sono molti che non hanno diritto di voto – che esprimono la loro volontà secondo le regole del principio di maggioranza. Nella proiezione di una lettura negoziale si può dire che si forma l’incontro delle volontà sulla proposta quando i creditori la approvano secondo lo schema del contratto bilaterale nel quale una parte è complessa.
Uno dei valori dominanti del concordato pre­ven­tivo è quello della flessibilità, visto che il debitore può predisporre un piano organiz­zandolo nel modo che reputa più appetibile per i creditori e al contempo meno pre­giu­dizievole per sé: la liberalizzazione della proposta non è sinonimo di liberismo (o, se si vuole, di privatizzazione del concorso e declamata degiurisdizionalizzazione del concordato preventivo), perché la libertà di confezionare la proposta va poi, sempre, misurata con i poteri attribuiti al giudice. Le regole sui criteri di distribuzione del valore (artt. 84 e 112 CCII) sono rigide nelle singole partizioni ma nel complesso consentono una ripartizione della ricchezza che penalizza taluni creditori privilegiati in funzione di una più estesa (sebbene non egualitaria) attribuzione di valore a diverse fasce di creditori.
7 . Il contratto nel concordato
L’ipotesi ricostruttiva sul patto di concordato va messa alla prova della proposta proveniente dal terzo (creditore) nell’alternativa contemplata nell’art. 90 CCII.
Il “patto di concordato” non è il contratto sulla procedura ma è il contratto su come deve essere regolata la crisi; si perfeziona con la deliberazione dei creditori ma non è, immediatamente, produttivo di effetti e ciò in quanto le obbligazioni che derivano dal concordato divengono efficaci solo quando interviene l’omologazione del tribunale. 
Come in parte abbiamo già enunciato, per evitare possibili fraintendimenti è forse più opportuno distinguere fra il concordato inteso come insieme di regole disciplinari e il patto di concordato inteso come l’accordo che si forma fra debitore e creditori su come il concordato (quale procedura) deve essere regolato. Il patto di concordato è un contratto che, però, per produrre tutti i suoi effetti necessita dell’intervento del giudice.
La domanda di concordato resta affidata al monopolio del debitore: solo il debitore può scegliere se farvi accesso, perché nel nostro tessuto economico (e nella porzione delle imprese manifatturiere in particolare) in larga parte costituito da imprese di dimensioni medio-piccole, si è ritenuto che la logica proprietaria spesso prevalente su quella manageriale non possa tollerare intrusioni di terzi.
Orbene, le regole disciplinari del concordato si applicano come effetto della domanda giudiziale attivata dal debitore e, dunque, anche la proposta del terzo non può non presupporle. Ma al posto del patto di concordato offerto dal debitore si sostituisce il patto di concordato offerto dal terzo. Quindi il patto di concordato offerto dal terzo è una enclave del concordato. 
Così meglio definito il perimetro del negozio con l’intervento del terzo, occorre però verificare quale ne sia l’oggetto.
L’effettività della proposta del terzo riceve la propria forza dalla sentenza di omologazione. Mentre il patto di concordato fra debitore e creditori potrebbe concludersi al di fuori del procedimento se tutti i creditori fossero consenzienti (e quindi non occorresse la blindatura dell’omologazione dalla quale derivano gli effetti di cui all’art. 117 CCII), giammai analogo patto di concordato potrebbe efficacemente concludersi fra il terzo e i creditori perché ha per oggetto il patrimonio del debitore. Appare, quindi, evidente quale sia la rilevanza della sentenza di omologazione che contiene una doppia forzatura: quella verso i creditori dissenzienti e quella verso il debitore. 
In tale cornice, il dominio della componente negoziale del patto di concordato rispetto al procedimento di concordato quando la proposta proviene dal debitore va ribaltato perché solo un atto di eteronomia (l’omologazione) può determinare il transito proprietario dal debitore al terzo proponente (i creditori).
L’opzione di non abbandonare il modello omologatorio, prima considerato ragionevole, in questo contesto è imprescindibile. Infatti, la crisi di un’impresa investe sempre una pluralità di interessi ed incide su una comunità indifferenziata e sui diritti di coloro che a questa comunità fanno riferimento; pertanto, all’autonomia delle parti è inevitabile far corrispondere una eteronomia dei controlli, allo scopo di raggiungere un punto di equilibrio, ben sapendo che il mercato non può autoregolamentarsi in misura soddisfacente per tutti e proprio tutti i soggetti che giocano questa partita: il nodo cruciale, però, è quello di verificare quali controlli siano affidati al giudice e su questo interrogativo le divisioni in letteratura sono profonde anche se si concentrano sul profilo della fattibilità del concordato.
Va ricordato che la norma di cui all’art. 117 CCII impone l’obbligatorietà del concordato per tutti, anche per coloro che sono rimasti estranei alla procedura. La presenza del giudice è la prova della necessità di garantire tutti e proprio tutti.
Al tribunale è affidato il ruolo di garante della legalità a favore di tutti, creditori coinvolti e creditori estranei.
Il controllo del tribunale, fermo restando in talune ipotesi anche un controllo sulla convenienza della soluzione concordataria (ma sempre a richiesta dei creditori e solo in presenza dei requisiti fissati nell’art. 112 CCII), si concentra sulla verifica di esatto svolgimento del procedimento e in particolare sulla conformità della proposta ai limiti legali imposti, sulla corretta ed esauriente informazione ai creditori, sulla legittima suddivisione dei creditori in classi, sulla assenza di fattori di inquinamento del voto. 
8 . La tutela dei creditori e la sistemazione della crisi
Il concordato preventivo va letto, anche, come processo perché è all’interno del processo che si forma la volontà delle parti ed è all’esito del giudizio di omologazione che la volontà delle parti produce effetti vincolanti. Il concordato è, quindi, anche un procedimento perché si dipana tra una serie di atti (a partire dalla domanda di concordato) sino ad un atto conclusivo (la sentenza che decide sull’omologazione), ed in più è anche un processo perché si svolge davanti alla autorità giudiziaria che è chiamata ad emettere una decisione che decide e incide su posizioni giuridiche soggettive rilevanti. 
Ma la complessità del concordato preventivo sta nel fatto che non solo è un processo, ma è anche una procedura concorsuale, non imposta ma negoziata, quindi non contro la volontà del debitore. Il concordato non assume i toni della procedura espropriativa ma rappresenta comunque uno strumento affinché sia assicurata la garanzia patrimoniale, posto che l’attuazione della garanzia può avvenire sia con mezzi coattivi che con mezzi spontanei. La cessione dei beni ai creditori secondo lo schema civilistico della cessio bonorum è esattamente un modo per realizzare la garanzia patrimoniale. 
L’attuazione della garanzia patrimoniale è consustanziale alla causa del concordato perché la regolazione della crisi presuppone, proprio, la soddisfazione dei creditori che vedono attuato il diritto alla realizzazione della garanzia patrimoniale attraverso un processo negoziato e non coattivo. Non rileva tanto il fatto che si pervenga all’espropriazione dei beni del debitore (visto che ciò non accade nel concordato garantito e in quello con continuità diretta), quanto invece la circostanza che al creditore deve essere offerto un valore non inferiore a quello ricavabile dalla liquidazione dei beni (v., artt. 84 e 87 CCII).
L’attuazione della garanzia patrimoniale nel concordato preventivo non si realizza nell’osservanza del principio della par condicio creditorum, ma nel rispetto di una regola concorsuale-distributiva tutt’affatto diversa. L’attuazione della garanzia patrimoniale rispetto al patrimonio del debitore (art. 2740 c.c.) avviene sulla base di tre principi concorrenti, ciascuno dei quali non può essere eluso e che in ordine verticale discendente vanno così declinati: (i) principio del realizzo minimo: il concordato deve offrire ai creditori, nel loro complesso ed individualmente, utilità non inferiori a quelle ritraibili dalla liquidazione giudiziale; (ii/a) principio della distribuzione obliqua del valore, frutto della interpolazione tra una distribuzione rigidamente verticale (sul valore di liquidazione) e una distribuzione verticale gradata (sul valore eccedente) nei piani concordatari in continuità; oppure (ii/b) principio della distribuzione maggiorata del valore, frutto combinato del soddisfacimento minimo per il ceto chirografario e dell’apporto di risorse addizionali nei piani concordatari liquidatori; (iii) principio della distribuzione asimmetrica delle risorse in funzione del conseguimento del risultato della risoluzione della crisi.
I tre principi sono, nella loro sequenza, dirompenti rispetto alla tradizione. Infatti, ne restano travolti i più frequentati pilastri fondamentali.
In primo luogo, (a) il principio della parità di trattamento tra i creditori: può apparire eretico dichiararlo ma la par condicio creditorum nel concordato preventivo, ed in quello con piano di continuità in particolare, è un profilo residuale al quale guardare nella conformazione della proposta, posto che la compartimentazione dei creditori in classi, il formarsi dei crediti prededucibili, lo spegnimento delle cause di prelazione eccedenti il valore del bene, rappresentano una limpida immagine della funzionalizzazione della proposta rivolta ai creditori per la sistemazione della crisi che diviene il valore-fine dominante. Abbiamo per lungo tempo patrocinato il messaggio per cui la continuità è un valore-mezzo per la tutela dei diritti dei creditori e non è, invece, un valore-fine (a sé stesso), come accade nella amministrazione straordinaria. Orbene, quella visione è oggi superata perché lo stesso soddisfacimento dei creditori va funzionalizzato ad un obiettivo più alto, quello della risoluzione della crisi. 
Ed allora, sela continuità dell’impresa è strumento per la realizzazione del soddisfacimento dei creditori, lo stesso soddisfacimento dei creditori è lo strumento per la composizione della crisi. Al pari della continuità, anche lo scenario liquidatorio, seppure con uno scalino più ripido a svantaggio del debitore, è lo strumento per la sistemazione della crisi. 
Tanto che l’impresa resti nel circuito economico o che scompaia ma trascinando con sé, senza lasciare tracce sui bilanci dei creditori, i debiti, il risultato che si vuole ottenere con il concordato preventivo è un risultato di mercato. È una conclusione cui vogliamo pervenire, frutto dunque di un sensibile ripensamento delle regole pregresse alla luce del codice della crisi, perché prende atto del processo di decomposizione del vecchio sistema. Non si poteva, cioè, conservare e solo ristilizzare i principi della legge fallimentare sul concordato; la complessità del nuovo istituto impone una rilettura sistematica generale.
In secondo luogo (b) anche il principio di maggioranza diviene residuale: non tanto perché ne sia sconfessata la radice assiologica fondata sull’interesse di comunità, quanto perché ai fini dell’omologazione della proposta l’approvazione di una maggioranza può divenire evento neutrale o irrilevante, sia per il metodo di computo dei voti, sia (e soprattutto) per l’attribuzione di valore alla volontà di alcuni soltanto dei creditori, postulandosi che il consenso dei creditori è richiesto per superare il pregiudizio, non per approvare la proposta. Può apparire forse paradossale che proprio nel momento in cui si eleva il consenso di tutte le classi a condizione dell’omologazione, al contrario, si predichi l’irrilevanza della maggioranza. Non è un ossimoro: la formazione della maggioranza attraverso l’unanimità delle classi consente di rendere praticabili proposte asimmetriche ma identico risultato si può raggiungere con la c.d. ristrutturazione trasversale (art. 112 CCII) che porta a configurare prevalente il risultato dell’omologazione sulle posizioni delle classi di creditori. Una conferma del valore superiore (o supremo) della sistemazione della crisi è emblematicamente rappresentato dalla regola che esclude la revoca dell’omologazione pur al cospetto della fondatezza del reclamo (art. 53 CCII). 
Si potrebbe obiettare che queste considerazioni muovono da un prisma visivo distorto: l’accentuazione dell’assetto regolatorio del concordato in continuità. L’obiezione è in parte corretta perché il principio di maggioranza e di parità di trattamento recuperano terreno nei concordati liquidatori, tanto è vero che si sostiene che le norme disegnino, ormai, due concordati affatto differenti. Per ragioni di inquadramento di sistema preferiamo rimanere ancorati all’idea che il concordato sia unico e ciò nondimeno anche rispetto allo scenario liquidatorio i due principi (a) e (b) sono recessivi: la parità di trattamento è largamente derogabile con la formazione delle classi e la stessa libertà di attribuzione delle risorse aggiuntive (art. 84 CCII) è una dimostrazione della possibilità di raggiungere il risultato della sistemazione della crisi mediante attribuzione di trattamenti non paritari; il principio di maggioranza governa sì l’approvazione della proposta ma con una significativa correzione data dalla enfatizzazione del conflitto di interessi sul voto con riflessa neutralizzazione dei voti.
Queste precisazioni ci permettono di confermare la nuova visione del concordato preventivo irradiata dai tre principi regolatori sopra declinati. 
9 . Par condicio e concorsualità
Come anticipato, i creditori possono essere intesi come una comunità involontaria e ciò giustifica il richiamo al principio di eguaglianza; principio, però, che si pone in rotta di collisione con il principio di autonomia privata
La previsione per cui la proposta può contenere una suddivisione del ceto creditorio per classi deroga al principio di cui all’art. 2741 c.c. Poiché nell’art. 2741 c.c. è stabilito il principio della parità di trattamento, salve le cause di prelazione, occorre chiedersi come le classi interferiscano con quella regola, posto che il legislatore sembra riferirsi ad un numero chiuso di prelazioni, costituito da ipoteche, pegni e privilegi. In verità è noto che il principio della parità di trattamento incontra una deroga anche per motivi processuali, come accade nella esecuzione singolare quando un creditore tardivo è posposto agli altri, oppure come accade, anche nella liquidazione giudiziale, rispetto alla categoria dei crediti prededucibili.
Esistono, quindi, anche sul piano processuale, trattamenti differenziati fra creditori di pari grado, in forza dell’acquisizione di privilegi processuali.
L’importanza delle classi si è accresciuta nel tempo ed ora il classamento dei creditori è il paradigma di riferimento dei concordati con piani di continuità, mentre nei piani liquidatori il maggior rilievo da dare alle classi è dovuto alla previsione, per vero assai controversa, della obbligatorietà della formazione delle classi, ricorrendo talune voci di credito.
Se il sistema attribuisce valore alla tassatività delle cause di prelazione dobbiamo respingere l’idea che la classe possa essere considerata una forma spuria di causa di prelazione, non tanto perché derivante dalla determinazione unilaterale del debitore, quanto piuttosto per il fatto che le prelazioni hanno ad oggetto beni e diritti che appartengono al debitore e sui quali queste prelazioni insistono; viceversa, nell’ipotesi delle classi, non v’è una relazione fra vantaggio e patrimonio, bensì il vantaggio deriva da una distribuzione asimmetrica delle risorse. La parcellizzazione del patrimonio riflette, dunque, la volontà di rendere diseguale il principio generale della responsabilità patrimoniale (generica) universale. 
Il diritto della crisi postmoderno è divenuto un diritto che premia le diseguaglianze; sino al 15 luglio 2022, in virtù della permeabilità della clausola del “miglior soddisfacimento dei creditori” potevamo accettare che così fosse perché tutti ne sarebbero stati in qualche modo avvantaggiati, ora, invece (ma la scelta è stata del legislatore unionale) in nome del valore della continuità dell’impresa ci si accontenta del risultato non pregiudizievole, un risultato che dovrà essere valutato alla prova dei fatti. Sarà necessario, non appena si formerà una base-dati sufficientemente adeguata ai fini statistici, valutare se il sistema delle ristrutturazioni avrà generato (oppure no), nel suo complesso, una maggiore ricchezza.
10 . Giustificazione delle classi
La distinzione fra classe e privilegi è dimostrabile anche con l’affermazione per la quale è consentito suddividere in classi distinte creditori che fruiscono della medesima posizione giuridica. Che classi e privilegi siano entità giuridiche ben distanti è confermato dal fatto che l'attribuzione di un privilegio non esclude la possibilità di suddividere i creditori in classi sol perché la legge ha stabilito che con le classi non si può alterare l'ordine delle prelazioni: il divieto di pagamento di crediti di rango inferiore non esclude una proposta che preveda un pagamento solo sino a un certo punto della graduazione. 
La previsione della suddivisione dei creditori in classi è, come già osservato, uno dei cunei che conducono al superamento della par condicio nel concordato; basti prospettare (anche se si tratta di una ipotesi di scuola) che a ciascun creditore – in ragione di una peculiarità nella posizione economica – spetti un trattamento differente da quello di tutti gli altri. Se così fosse, in modo inconfutabile, si dovrebbe concludere che la par condicio non solo non coincide o non assorbe la concorsualità, ma non è più neppure, nei concordati, la pietra angolare della concorsualità. 
Tuttavia, dobbiamo ancora trovare il fondamento che regge la regola delle classi; diversamente, il rischio di un contrasto fra l’art. 85 CCII e l’art. 2741 c.c. non sarebbe certo marginale ed anzi non si potrebbe escludere un sospetto di incostituzionalità della prima norma, se come si è detto, la classe non può essere equiparata ad una causa di prelazione. 
La stessa presenza delle cause di prelazione e quindi di figure che parrebbero contraddire il principio di eguaglianza formale, è, invero, espressione del principio di eguaglianza sostanziale, nel senso che vi sono taluni creditori che meritano maggiore protezione di altri, sì che ove non fossero i loro crediti assistiti dai privilegi, ne sarebbe violato il principio di eguaglianza sostanziale. 
Quando si ammette che la formazione delle classi si pone come una scelta del legislatore di pari valore sostanziale rispetto alla immissione di un nuovo privilegio (non diversamente da quanto accade a proposito delle esenzioni dalla azione revocatoria, dove pure occorre trovare una razionalità nella scelta esonerativa), si accetta la deroga all’art. 2741 c.c., ma si incontra un ostacolo nuovo. Infatti, la scelta di preferire un creditore in luogo di un altro, purché non irragionevole, è certamente legittima ma è anche, certamente sindacabile. Con la previsione della formazione delle classi, però, il parametro della ragionevolezza si sposta dal legislatore al proponente il concordato; è il proponente che decide in quale classe collocare ciascun creditore. Poiché le linee guida fissate dal legislatore (posizione giuridica ed interessi economici omogenei) sono assolutamente vaghe, è come se vi fosse una causa di prelazione “in bianco”, riempibile a cura del proponente. 
La censura assume, poi, maggiore spessore ove si rifletta sul fatto che solo le deroghe ex ante alla par condicio sarebbero sopportabili mentre il ricorso al sistema delle classi, risulterebbe fortemente penalizzante per i creditori non favoriti. Infatti, la creazione delle classi interviene già in fase satisfattiva, quando ormai le scelte di valore (quelle processuali sui tempi della partecipazione e quelle sostanziali sulla rilevanza dell’interesse del creditore) sono compiute, sì che ogni alterazione ex post, infirma i principi di eguaglianza sostanziale.
Ed allora la giustificazione delle classi, anche tenuta in conto la comparazione con altri valori egualmente protetti dalla Costituzione, va ricercata nella tutela di un interesse altro, se si vuole più alto, insito nella finalità di risanamento dell’impresa oppure anche nella finalità di prevenire le procedure liquidatorie che si considerano dispersive dei valori economici dell’impresa pur in casi di insolvenza. Le deroghe poste dal legislatore ordinario alla parità di trattamento non sono eretiche perché, a fondo, la classe è soltanto un mezzo per conseguire il consenso dei creditori basandoci sul teorema che i trattamenti differenziati siano accettabili dal ceto creditorio quando adeguatamente giustificati e correlati ad effettive posizioni di credito differenti. Per capire, appieno, l’istituto delle classi va, dunque, sgomberato il campo dai retaggi ideologici connessi alle singole posizioni di credito per confluire verso una visione “collettiva” del soddisfacimento dei creditori. 
Nella sostanza, il legislatore ha attribuito al proponente la facoltà di proporre ai creditori dei trattamenti differenziati (che prescindono dalla titolarità di posizioni giuridiche) acconsentendo a che l’accettazione di questi trattamenti differenziati possa avvenire con la regola della maggioranza.  Si forma, dunque, una deviazione convenzionale dalla regola della par condicio, fondata non più sull’assenso individuale, ma sul consenso della maggioranza perché la proposta deve avere sempre e soltanto di mira il soddisfacimento dell’intera collettività dei creditori quale mezzo per perseguire l’obiettivo della sistemazione della crisi.
Il concordato preventivo è una procedura concorsuale la cui causa (astratta) è la regolazione della crisi dell’impresa che viene attuata secondo regole disciplinari diverse dalle procedure liquidatorie in quanto non è necessariamente governata dalla tecnica della par condicio creditorum, ma dalla funzionalizzazione del soddisfacimento dei creditori al risultato di mercato del superamento della crisi. La prova decisiva della rilevanza collettiva delle classi la troviamo nel piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (art. 64 bis CCII), là dove il consenso unanime delle classi consente trattamenti persino discriminatori. 
11 . Distinzione tra domanda, piano e proposta
Le norme degli artt. 40, 84 e 87 CCII individuano cosa il piano possa prevedere, cosa la proposta possa/debba contenere, nonché il modo attraverso cui accedere al giudice (la domanda); è, dunque, utile marcare i confini fra questi tre fenomeni. 
La domanda è una prerogativa di cui il debitore rimane sovrano (art. 40 CCII); il piano e la proposta possono, invece, essere confezionati da un terzo (art. 90 CCII).
La proposta di concordato è la proposta negoziale che il debitore (o il terzo) formula(no) ai creditori. Con la proposta il proponente assume un impegno verso i creditori, pur se questo impegno diviene vincolante solo dopo che sia stato omologato il concordato. Se anche si può convenire sulla circostanza che la proposta sia negoziata, nei fatti, con taluni creditori e pos­sa essere conformata dai rilievi e dai suggerimenti del commissario giudiziale (art. 92 CCII), resta il fatto che l’ac­cor­do si forma sulla proposta e i creditori sono chiamati ad approvare la proposta. 
La proposta si fonda su di un piano, che rappresenta lo strumento operativo e organizzativo per formulare la proposta e costituisce l’ar­chitet­tura organizzativa (una sorta di pianificazione economica, patrimoniale e finanziaria) per far sì che la proposta appaia ai creditori credibile.
Poiché il legislatore ha confermato che l’accordo produce effetti soltanto se è omologato dal tribunale, è chiaro che il piano e la proposta da soli non servono a nulla, in quanto è necessario che il debitore formuli una domanda giudiziale con la quale il debitore chiede che il giudice accerti e legittimi la richiesta dell’imprenditore che la crisi (o l’insolvenza) sia regolata secondo la disciplina del concorso (in luogo della disciplina civilistica dell’esecu­zione forzata) e segnatamente, del concorso concordatario. 
La sequenza piano → proposta → domanda è un poco complicata per il fatto che il legislatore ha ritenuto che il controllo che spetta al giudice si formi all’interno di un complesso procedimento nel quale è raccolto il consenso e questo consenso deve essere validamente espresso in base ad una certa serie di regole che vanno obbligatoriamente rispettate. 
La distinzione concettuale è semplice; la sua declinazione in concreto è però meno nitida.
La differenziazione tra il piano e la proposta è di decisivo rilievo perché: (i) il piano deve essere fattibile (come è dimostrato dal fatto che l’attestazione del professionista indipendente verte sulla fattibilità, e che il tribunale prima di aprire la procedura di concordato deve valutare che sia fattibile o comunque non manifestamente inadeguato); (ii) la proposta deve essere adempiuta e in caso di inadempimento il concordato può essere risolto. Così, il piano deve contenere i tempi di adempimento della proposta (art. 87, 1° comma, lett. e CCII), il che significa che i tempi delle attività da compiere per acquisire le risorse (cioè il programma di approvvigionamento delle risorse) sono componente del piano, mentre i tempi di adempimento sono componente della proposta (cioè l’assunzione di un impegno affinché la soddisfazione del credito intervenga entro una certa data).
Il piano rappresenta, dunque, il mezzo attraverso il quale il debitore è poi in grado di formulare la proposta. L’assetto organizzativo del piano è rimesso all’autonomia del debitore in modo da realizzare un programma operativo di gestione dell’attività dell’impresa, gestione che potrà trascorrere dal piano puramente liquidatorio rispetto al quale va disciplinato solo il modo di procedere alla dismissione degli asset, al piano che prevede una continuità aziendale o imprenditoriale ma che in ogni caso non potrà essere disgiunto dalla presentazione di un vero e proprio piano industriale. Le strette interconnessioni fra piano e proposta comportano che uno stesso aspetto possa essere riguardato sia come elemento del piano che come oggetto della proposta.
12 . Modelli di concordato
Prima di analizzare il contenuto del piano (art. 87 CCII) è necessario esaminare le tipologie di concordato preventivo perché le diversità strutturali pertengono, proprio, al piano e non alla proposta.
Abbiamo visto che il concordato assolve al fine del soddisfacimento dei creditori (art. 84, comma 1, CCII) che è a sua volta un mezzo per pervenire all’obiettivo di fondo che è la sistemazione della crisi.
Per giungere al soddisfacimento dei creditori occorre disporre di un programma con il quale si prevedono le modalità di raccolta delle risorse necessarie; questo programma è rimesso alle scelte del debitore (o del proponente terzo ai sensi dell’art. 90 CCII), scelte non vincolate purché funzionali al risultato finale. In tal senso la legge indica alcune tipologie di piani concordatari che potremmo definire “tipici” ma non costruisce un recinto, lasciando ampi margini di manovra. Dobbiamo leggere assieme l’art. 84, comma 1, con l’art. 87, comma 1, lett. d). 
Le azioni di programma sono indicate nell’adozione di qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo, o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l'attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote, ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni, o altri strumenti finanziari e titoli di debito. Le opportunità offerte al debitore sono vaste e non devono per forza incasellarsi negli schemi tipologici della liquidazione del patrimonio o della continuità aziendale; il piano di concordato può prevedere l’intervento di un assuntore, ma neppure va escluso che il piano di concordato si fondi solamente sulla prestazione di una garanzia di un terzo (senza travaso di patrimonio dal debitore al terzo). 
I concordati transtipici pongono, però, un problema: in diverse disposizioni del codice troviamo una disciplina di dettaglio differente tra concordati in continuità e concordati di liquidazione (ad esempio sulla distribuzione del valore). Per i concordati che non sono catalogabili secondo questi due schemi occorre trovare le regole disciplinari applicabili: la soluzione è quella di applicare non già il regime più vicino alla fattispecie, ma di non applicare il regime più remoto. Se ad esempio viene proposto un concordato con garanzia, non è applicabile l’art. 84, comma 4, CCII, perché la previsione di risorse aggiuntive nel concordato con liquidazione è giustificata dal fatto che la liquidazione è l’attività naturale della liquidazione giudiziale, talché se si vuole proporre un concordato che simula la liquidazione è necessario offrire ai creditori un quid pluris. Le esigenze connesse a questa indicazione non le ritroviamo nel concordato con garanzia nel quale non sarà necessario un apporto di maggiori risorse. Parimenti, dobbiamo ritenere che i creditori chirografari non vadano soddisfatti in misura non inferiore al venti per cento perché la regola che consente di proporre un concordato senza limiti minimi è stabilita in funzione di dare ai creditori qualcosa che con la liquidazione giudiziale non potrebbero conseguire.  La prestazione di una garanzia, esterna al patrimonio del debitore, è un vantaggio per i creditori, tale da giustificare che non sia necessaria l’offerta di una percentuale minima; se questa garanzia sarà di valore inferiore al patrimonio liquidabile i creditori potranno rifiutarla in occasione del voto e potranno opporsi per difetto di convenienza. È ben vero la scelta di individuare il regime meno compatibile è un esercizio complesso ma se condividiamo il fatto che i piani transpitici sono ammessi, le regole di trattamento vanno trovate.
13 . Concordato con liquidazione
Per lungo tempo il modello di concordato più diffuso è stato quello rappresentato dalla cessio bonorum: il debitore proponeva ai creditori la cessione del suo patrimonio affinché i creditori potessero soddisfarsi sul ricavato della liquidazione. Il codice della crisi lancia segnali evidenti di disfavore rispetto alle soluzioni liquidatorie come si desume dalla previsione di una percentuale minima di soddisfacimento dei creditori chirografari e dalla necessità di far affluire risorse aggiuntive.
L’art. 84 CCII eleva a modello tipico il concordato in cui il piano prevede la liquidazione del patrimonio. L’art. 114 CCII regola le modalità di esecuzione del concordato con cessione dei beni. Il concordato liquidatorio rappresenta una circonferenza più ampia del cerchio del concordato con cessione dei beni, posto che la cessione dei beni è una delle modalità di liquidazione del patrimonio ma certo non l’unica.
Più precisamente, la liquidazione del patrimonio – mezzo per il soddisfacimento dei creditori – può essere gestita dal debitore, può essere gestita dal liquidatore giudiziale nominato dal tribunale nel caso di cessione dei beni, ma potrebbe essere affidata ad un soggetto professionale – una SGR – che gestisce il patrimonio conferito in un fondo immobiliare chiuso. Qualunque sia la modalità di liquidazione, si applicano le regole del concordato liquidatorio; se la liquidazione è connessa alla cessione dei beni saranno applicabili, altresì, le disposizioni di cui all’art. 114 CCII. Tuttavia, poiché l’art. 84, comma 4, parla di soddisfacimento e non di pagamento, nulla esclude che il soddisfacimento dei creditori possa avvenire con il trasferimento a loro favore della proprietà dei beni in una sorta di comunione pro-indiviso
In tale contesto, quando la cessione dei beni è strumento del piano, per vedere se c’è inadempimento occorrerà guardare al pagamento, mentre se la cessione è dedotta nella proposta, di inadempimento si potrà discutere solamente quando il trasferimento non sia attuato.
La legge non esclude che la liquidazione del patrimonio sia gestita dal debitore, posto che il liquidatore giudiziale serve se c’è cessione dei beni (non se cessione non c’è). Sennonché occorre verificare se il patto di concordato possa reggersi sull’obbligazione del debitore di liquidare il patrimonio. 
Il debitore è tenuto ad impegnarsi, in modo vincolante, a soddisfare almeno il venti per cento del ceto chirografario e far affluire risorse aggiuntive almeno pari al dieci per cento dell’attivo. Queste sono le obbligazioni a carico del debitore e ciò a prescindere da chi sia il soggetto deputato a guidare la liquidazione. Se la liquidazione dei beni non darà l’esito sperato, vi sarà inadempimento ogni volta che si assisterà ad uno scostamento di non scarsa importanza ai sensi dell’art. 119 CCII. 
Ci troviamo di fronte ad una “liquidazione garantita”:  il debitore offre ai creditori risorse aggiuntive – esterne al patrimonio responsabile – in misura almeno pari al dieci per cento dell’attivo disponibile al momento di ingresso in procedura e si impegna a far sì che il patrimonio complessivo sia idoneo a soddisfare il ceto dei creditori chirografari (non il singolo creditore, tenuto conto della facoltà di suddividere i creditori in classi con trattamenti differenziati) nella misura non inferiore al venti per cento. Questo impegno può essere supportato dalla cessione dei beni, ma con la decisiva avvertenza che l’obbligazione assunta ai fini dell’adempimento del concordato è il soddisfacimento; la cessione dei beni conquista, quindi, a pieno titolo il ruolo di componente del piano e non della proposta.
In tale contesto sarà necessario distinguere fra i concordati liquidatori e quelli con cessione dei beni.
La proposta di concordato con piano di liquidazione nella quale si offre ai creditori la cessione dei beni pura e semplice, senza il soddisfacimento minimo dei creditori chirografari e privilegiati degradati, va reputata inammissibile. 
La previsione dell’apporto di risorse esterne penalizza il debitore rispetto alla liquidazione giudiziale e tuttavia queste risorse esterne possono essere destinate senza vincoli di distribuzione e cioè senza il rispetto dell’ordine di graduazione. 
Per risorsa esterna – a condizione che la destinazione della risorsa aggiuntiva avvenga direttamente a vantaggio dei creditori concorsuali - si intende l’apporto di un terzo (i) senza obbligo di restituzione (potrebbe trattarsi di un atto gratuito, di liberalità o senza corrispettivo) o (ii) con previsione della postergazione del credito restitutorio purchè dopo il soddisfacimento almeno pari al venti per cento dei creditori chirografari.
14 . Concordato con assuntore
Una delle modalità tipiche in cui si può estrinsecare il piano di concordato è quella dell’assunzione, ovverosia un terzo assume l’obbligazione di soddisfacimento dei creditori concorsuali e, sempre che lo voglia, acquisisce le attività del debitore. Si tratta di una fattispecie da lungo tempo praticata nello scenario del concordato (all’epoca) fallimentare e assai meno diffusa nel concordato preventivo. Quando scende in campo l’assuntore ai creditori non interessano più le sorti del patrimonio del debitore perché hanno un nuovo soggetto debitore nei confronti del quale possono agire se la proposta non sarà adempiuta. Anche in questo caso e senza che rilevi ciò che l’assuntore intenderà fare dell’impresa (se continuarla o se liquidarla), ai creditori non dovrà essere offerto un trattamento minimo perché loro già si avvantaggiano della presenza di un ulteriore patrimonio responsabile. 
Tuttavia, il solo fatto che non trovino applicazione le norme che penalizzano il concordato liquidatorio non spinge verso l’utilizzazione delle disposizioni di favore (v., infra) dettate per il concordato in continuità, proprio perché ai creditori non deve interessare ciò che farà l’assuntore. In questo caso, troverà applicazione la norma che stabilisce che il valore di liquidazione va distribuito secondo le regole di graduazione del codice civile ordinate in modo rigidamente verticale (absolute priority rule).
15 . Concordato in continuità
Il lemma “continuità” ricorre nel codice della crisi decine di volte: è un segnale limpido di quanto il legislatore abbia voluto investire sulla continuità aziendale sul presupposto che la prosecuzione dell’impresa possa creare un valore superiore a quello ritraibile dalla sua disgregazione. Si tratta di una scelta decisivamente influenzata dal legislatore dell’Unione europea che è stata raccolta in misura rilevante a livello domestico; scelta che, però, va misurata con la realtà e con il fatto che una soluzione di continuità è realmente e virtuosamente possibile soltanto quando alla crisi il debitore reagisce tempestivamente (art. 3 CCII). Non a caso la continuità è il valore dominante della composizione negoziata della crisi, e la cifra della continuità va ben oltre se si guarda agli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa, se si analizzano le norme sui gruppi, se si valorizza il criterio di priorità di trattazione ai fini del procedimento unitario.
Quando si discute di continuità in uno scenario di crisi il primo interrogativo che ci si pone è se la continuità sia un valore-fine o sia, soltanto, il valore-mezzo per procurare il soddisfacimento dei creditori. Sappiamo che nel nostro ordinamento concorsuale, prima del codice della crisi, si fronteggiavano due plessi normativi assai distanti tra loro: da una parte l’amministrazione straordinaria nella quale l’obiettivo (fine) è la prosecuzione dell’impresa anche a discapito dei diritti dei creditori e dall’altra parte il concordato preventivo nel quale l’obiettivo è assicurare ai creditori il soddisfacimento migliore cui è funzionalizzata la continuità dell’impresa (mezzo). 
Nel concordato preventivo e nei diversi istituti che compongono l’assortimento degli strumenti di negoziazione affidati al debitore emerge sempre più frequentemente che il valore della continuità possa divenire il punto cardinale di riferimento, anche con possibile parziale compromissione dei diritti dei creditori, creditori che, però, non sono sempre allineati ed anzi spesso si vengono a trovare in posizione di conflitto perché vi sono coloro che sono interessati alla prosecuzione dell’attività e coloro che, invece, sono interessati solo alla riscossione del credito “vecchio”. In tal senso già si è abdicato alla clausola generale primaria del “soddisfacimento migliore” per i creditori in favore della più “tollerabile” assenza di pregiudizio.
Si agita, qui, il rischio che si ripeta l’espressione “risanamento finanziato dai creditori” anche nel concordato preventivo, espressione coniata per l’amministrazione straordinaria, là dove si fatica a comprendere come la netta opzione del favor verso la continuità si possa armonizzare con le regole disciplinari delle crisi delle altre (le più) imprese. L’utilità sociale e l’interesse nazionale, quali valori costituzionali protetti, possono giustificare l’opzione di dare prioritario rilievo alla prosecuzione dell’attività d’impresa ma si dovrebbe trattare di casi periferici ed eccezionali.
Si tratta, ora, di capire se quelle conclusioni siano ancora attuali oppure se la mutazione del concordato preventivo abbia determinato un ribaltamento degli obiettivi facendo assurgere la continuità a valore-fine. L’interrogativo muove dal rilievo della particolare attenzione riservata dal codice alla dimensione della continuità e, soprattutto, dal fatto che molteplici sono le disposizioni che inclinano il concordato con piano di continuità nella direzione di un regime nettamente di favore (v., infra). 
Per rispondere al quesito con piena consapevolezza è necessario indugiare su alcune norme che lette nel loro insieme ci consentono di optare per una soluzione non ideologica ma ancorata al tessuto legislativo. 
La continuità dell’impresa è idealmente un fenomeno che tutela l’occupazione, che favorisce la prosecuzione delle relazioni commerciali, che tende a salvaguardare (o accrescere) i valori immateriali dell’impresa destinati, invece, a dissolversi nel caso di liquidazione. Nulla impedirebbe di incentrare tutto il sistema nella direzione della continuità come accade per l’amministrazione straordinaria. Può ben darsi che la continuità, nelle procedure giurisdizionali e negli strumenti del codice della crisi, sia divenuta la stella polare da cui ci si deve far guidare ma non ad ogni costo, perché una lesione anche minima del diritto di credito non è tollerabile finanche nel caso più estremo declinato nell’art. 53 CCII, là dove in nome della continuità l’accertata lesione del credito non conduce alla rimozione dello strumento, ma si trasforma in pari diritto al risarcimento del danno. Questa disposizione che esalta il valore della continuità ne costituisce, però, anche il limite estremo, nel senso che il diritto di credito, pur riconvertito in diritto risarcitorio, non viene pregiudicato (come accadrebbe nell’amministrazione straordinaria).
Ecco, allora, che tutti gli indici che giocano a favore del piano di continuità puntualmente scanditi nel codice non appaiono tali da trasfigurare il concordato preventivo da procedura di tutela dei creditori a procedura di risanamento. Non a caso, se collochiamo la continuità aziendale come programma e cioè come componente del piano, ci avvediamo che il debitore non propone ai creditori la continuità ma un trattamento delle loro pretese; la continuità non è oggetto della proposta perché, di per sé, la continuità non è una obbligazione che possa essere offerta ai creditori in luogo della loro disponibilità a liberare il debitore dal debito non soddisfatto.
Difatti, esaminando alcune delle disposizioni del codice della crisi, si nota che il contenuto della proposta resta, sempre, quello del soddisfacimento dei creditori.
L’art. 84 CCII contiene al proposito almeno tre decisivi principi:
(i) il debitore può proporre un concordato che realizzi, sulla base di un piano avente il contenuto di cui all’articolo 87, il soddisfacimento dei creditori;
(ii) si stabilisce che la continuità aziendale tutela l’interesse dei creditori e preserva, nella misura possibile, i posti di lavoro;
(iii) la proposta di concordato deve prevedere per ciascun creditore un’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile, che può consistere anche nella prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore o con il suo avente causa.
Da questi tre principi ricaviamo che la tutela dell’interesse dei creditori è prevalente perché la preservazione dei posti di lavoro è obiettivo importante ma non assoluto, perché offrire ai creditori una utilità diversa dal pagamento in denaro significa comunque attribuire ai creditori un valore economicamente misurabile individualmente (mentre la continuità non è di per sé una utilità specifica per ciascun creditore), perché la proposta deve basarsi sul soddisfacimento dei creditori.
Pertanto, pur nella consapevolezza che l’asse del concordato si è grandemente spostato nella direzione della salvaguardia della continuità e della stessa tutela della continuità con una serie di norme di favore che declineremo nei prossimi §§, i principi spingono ancora il concordato preventivo tra gli strumenti di regolazione della crisi volti a sistemarla mediante il soddisfacimento dei creditori. 
Superato questo scoglio, i paradigmi della continuità sono essenzialmente tre: (i) la continuità può essere diretta (soggettiva) o indiretta (oggettiva). Nell’un caso l’attività d’impresa continua in capo al medesimo soggetto economico (non rilevando come al suo interno venga a modificarsi l’assetto proprietario); (ii) la continuità può realizzarsi secondo le forme più varie; (iii) l’applicazione del regime disciplinare del concordato in continuità prescinde dalla dimensione quantitativa delle risorse da destinare ai creditori, perché seppure queste risorse ricavate dalla continuità siano inferiori a quelli conseguite dalla liquidazione, le regole da applicare restano quelle del concordato in continuità. 
L’attenzione va posta sul potenziale dissidio tra continuità indiretta e liquidazione; un dissidio paventato in relazione al teorico conflitto tra l’art. 84 CCII che include il trasferimento d’azienda nel perimetro della continuità e l’art. 25 septies CCII che a sua volta annette il trasferimento d’azienda al concordato semplificato che è concordato di natura liquidatoria.
Questa adombrata antinomia in realtà non esiste proprio; l’art. 84 dà rilievo al fatto oggettivo della continuazione dell’attività d’impresa in capo ad un soggetto diverso dal debitore e postula che questa prosecuzione sia un valore meritevole di un trattamento di favore perché ‘qualcosa’ resta sul mercato; al contrario, l’art. 25 septies contiene una disposizione sulle modalità di vendita dell’azienda perché si assume che ai fini di conseguire il miglior risultato di mercato sia preferibile vendere l’azienda unitariamente anziché alienare i singoli beni che la compongono, ma nel concordato semplificato è del tutto indifferente ciò che accadrà dopo la vendita dell’azienda, perché questa potrebbe essere disgregata dal compratore senza nessun effetto lesivo dei diritti dei creditori.
Nessuno dubita che il trasferimento dell’azienda (o di suoi rami) non sia un atto di liquidazione del patrimonio del debitore ma la legge ha voluto ribaltare la prospettiva e si è stabilito che del trasferimento di azienda non si debba guardare il profilo soggettivo, ma quello oggettivo della prosecuzione dell’impresa. Certo si potrebbe obiettare che in questo modo viene premiato un atto di liquidazione che potrebbe essere compiuto anche all’interno della liquidazione giudiziale, ma a questa critica si può replicare nel senso che se sono osservate le regole delle procedure competitive di vendita (previste anche nel concordato) non si deve temere una sottrazione di valore e, semmai, il vantaggio di un trasferimento d’azienda prima dell’evento traumatico della liquidazione giudiziale dovrebbe generare, per una logica razionale, un ricavato migliore. 
Nella continuità indiretta (od oggettiva) conta il fatto che la gestione dell’azienda sia affidata ad un soggetto diverso dal debitore in forza di cessione, usufrutto, conferimento in una o più società, anche di nuova costituzione, ovvero in forza di affitto, anche stipulato anteriormente, purché in funzione della presentazione del ricorso, o a qualunque altro titolo. Il perimetro delle modalità tramite le quali l’attività prosegue in capo ad un terzo è ampio ed inclusivo dell’affitto di azienda sul quale si era molto discusso in passato. Il passaggio, anche provvisorio, della titolarità dell’azienda in capo ad un terzo è sufficiente perché si possano applicare le regole del concordato in continuità purché l’affitto sia parte del piano di concordato e sia, dunque, lo strumento di attuazione del concordato; non rientrerebbe in questo ambito l’affitto di azienda volto a conservare il valore ma in funzione di un piano di liquidazione. Questo sarà senz’altro ammesso, ma senza l’applicazione delle norme di favore.
16 . Il piano di continuità
Il contenuto del piano di concordato è fissato in modo analitico nell’art. 87 CCII.
Il piano rileva all’interno dell’impresa come documento programmatico diretto a individuare le coordinate operative di gestione dell’impresa in funzione della redazione di una proposta da rivolgere ai creditori.
Il piano, però, rileva anche all’esterno perché è un documento di natura informativa rivolto ai creditori e al tribunale per metterli nelle condizioni di valutare se approvare la proposta (i primi) e se omologarla (il secondo). 
Il corredo informativo è molto vario perché vi sono informazioni che guardano al futuro e si tratta delle azioni che il debitore intende intraprendere ma vi sono anche notizie sul passato (ad esempio in tema di atti compiuti) che possono agevolare i creditori nella scelta se approvare la proposta.
Di sicuro, il piano deve essere completo, esposto razionalmente e fondato su previsioni attendibili, confezionato in modo trasparente e supportato da idonea documentazione in modo che i creditori ed il tribunale possano assumere una decisione facendo riferimento tanto all’attestazione quanto alla documentazione allegata.
Più nel dettaglio, rispondono ad una esigenza di trasparenza (i) l’indicazione del debitore e delle eventuali parti correlate, le sue attività e passività al momento della presentazione del piano e la descrizione della situazione economico-finanziaria dell’impresa e della posizione dei lavoratori, nonché (ii) la precisazione delle azioni risarcitorie e recuperatorie esperibili nonché le azioni eventualmente proponibili solo nel caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale e le prospettive di realizzo;
Le precisazioni sulle azioni giudiziali rilevano, però, anche ai fini della valutazione che devono esprimere i creditori che vanno resi edotti del presumibile valore di liquidazione del patrimonio, alla data della domanda di concordato, in ipotesi di liquidazione giudiziale al fine di effettuare una comparazione. 
Vi sono, poi, una serie di indicazioni che attengono, direttamente, al contenuto del piano come programma di azione: (i) la descrizione delle cause e dell’entità dello stato di crisi o di insolvenza in cui si trova l’impresa (profilo fondamentale perché la continuità si fonda, proprio, sulla discontinuità rispetto al passato) e l’indicazione delle strategie d'intervento; (ii) le modalità di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo, o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l'attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote, ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni, o altri strumenti finanziari e titoli di debito; (iii) la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta nonché, in caso di concordato in continuità, il piano industriale con l’indicazione degli effetti sul piano finanziario e dei tempi necessari per assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria;
(iv) ove sia prevista la prosecuzione dell'attività d'impresa in forma diretta, l'analitica individuazione dei costi e dei ricavi attesi, del fabbisogno finanziario e delle relative modalità di copertura, tenendo conto anche dei costi necessari per assicurare il rispetto della normativa in materia di sicurezza sul lavoro e di tutela dell’ambiente; (v) gli apporti di finanza nuova eventualmente previsti e le ragioni per cui sono necessari per l’attuazione del piano;
Il piano deve prevedere altresì le iniziative da adottare qualora si verifichi uno scostamento dagli obiettivi pianificati: si tratta di una previsione importante perché accade spesso che l’esecuzione del piano sia resa difficile non tanto dalla condotta di chi lo deve attuare quanto dal sopravvenire di situazioni esogene che, comunque, debbono essere governate. 
Infine, il piano contiene indicazioni relative al trattamento dei creditori che vanno poi declinate nella presentazione della proposta: (i) il piano individua le parti interessate dal piano, indicate singolarmente o descritte per categorie di debiti, e l’ammontare dei relativi crediti e interessi, con indicazione dell’ammontare eventualmente contestato; (ii) nel piano sono indicate le classi in cui le parti interessate sono suddivise ai fini del voto, con indicazione dei criteri di formazione utilizzati, del valore dei rispettivi crediti e degli interessi di ciascuna classe; (iii) il piano determina le eventuali parti non interessate dal piano, indicate individualmente o descritte per categorie di debiti, unitamente a una descrizione dei motivi per i quali non sono interessate; (iv) nel piano sono precisate le modalità di informazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori nonché gli effetti della ristrutturazione sui rapporti di lavoro, sulla loro organizzazione o sulle modalità di svolgimento delle prestazioni;
(v) nel piano il debitore indica le ragioni per cui la proposta concordataria è preferibile rispetto alla liquidazione giudiziale.
17 . I vantaggi della continuità
Dalla scelta concordataria della continuità discendono automaticamente vantaggi decisivi: (a) la legge indica che la proposta deve essere conveniente per i creditori ma quando il piano è formato in continuità questa convenienza trascolora in assenza di pregiudizio (art. 7 CCII); (b) ai fini dell’apertura del concordato il tribunale valuta la ritualità della proposta senza effettuare alcun sindacato di merito; (c) la continuità deve essere preservata anche nel giudizio di reclamo sul provvedimento che ha deciso sulla domanda di concordato (art. 52 CCII); (d) quando è impugnata la sentenza di omologazione di un concordato in continuità la corte d’appello adita in sede di reclamo, nonostante la fondatezza del gravame, può confermare la sentenza di omologazione se l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori prevale rispetto al pregiudizio subito dal reclamante, riconoscendo a quest’ultimo il risarcimento del danno (art. 53 CCII); (e) nel concordato in continuità la distribuzione del valore avviene secondo la regola della relative priority rule sulle risorse eccedenti quanto ricavabile dalla liquidazione (art. 84 CCII): (f) il piano può prevedere una moratoria per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca con la conseguenza che i termini di adempimento della proposta possono essere dilatati (art. 86 CCII); (g) nel piano in continuità il commissario giudiziale giuoca un ruolo più marcato perché oltre al consueto compito di sorveglianza assume anche quello di (possibile) consulente nella redazione del programma (art. 92); (h) nei concordati in continuità i contraenti-creditori dell’impresa non hanno a disposizione i rimedi di autotutela negoziale che non sono attivabili né per il solo fatto dell’accesso al concordato né per il fatto che in presenza di contratti essenziali, concesse le misure protettive, non siano pagati i debiti anteriori (art. 94 bis CCII); (i) quando la proposta si fonda sul piano di continuità il tribunale può omologare anche in assenza della maggioranza delle classi purché abbia votato a favore almeno una classe pregiudicata (art. 109 CCII); (l) analogamente, l’omologa può essere disposta quando vi sia l’opposizione di un creditore che lamenti la non convenienza della proposta ma dalla comparazione con la liquidazione giudiziale emerga che il trattamento non è pregiudizievole (art. 109 CCII); (m) la continuazione dell’attività consente all’impresa di proseguire i contratti con la pubblica amministrazione (art. 94 bis CCII); (n) la continuazione dell’attività consente anche di stipulare contratti di finanziamento con il beneficio della prededuzione (artt. 99 e 101 CCII); (o) quando è prevista la continuazione dell’attività aziendale, il tribunale può autorizzare il debitore a pagare crediti anteriori per prestazioni di beni o servizi, a pagare le retribuzioni dovute per le mensilità antecedenti il deposito del ricorso ai lavoratori addetti all’attività di cui è prevista la continuazione nonché al rimborso, alla scadenza convenuta, delle rate a scadere del contratto di mutuo (art. 100 CCII). 
Tutte queste previsioni permettono di predicare che il concordato in continuità è una procedura che riceve un chiaro endorsement del legislatore.
18 . Le classi
Il piano contiene le indicazioni relative al trattamento dei creditori, fermo restando che la specifica obbligazione che il debitore assume è oggetto della proposta concordataria. Ai fini del soddisfacimento dei creditori il debitore può prevedere nel piano (art. 87 CCII) la formazione di classi di creditori ai quali riservare un trattamento differenziato in ragione della non omogeneità delle posizioni economiche. 
L’introduzione delle classi nasce, come abbiamo visto, dal bisogno di porre in primo piano, nell’ambito di un procedimento di riorganizzazione, gli interessi economici dei creditori. I creditori non possono più essere distinti solo in ragione della loro posizione giuridica ma vanno diversamente considerati – e se del caso, quindi, diversamente trattati – anche a seconda di quale sia l’interesse economico che li caratterizza rispetto all’operazione di ristrutturazione. Le classi di creditori, nel concordato in continuità, sono funzionali a calibrare il trattamento dei creditori in modo bilanciato e quanto più possibile analogo a quanto potrebbe accadere in uno scenario di crisi ma gestito fuori da un controllo eteronomo; nel concordato liquidatorio assolvono alla diversa esigenza di arrotondare le spigolosità della regola generale di cui all’art. 2741 c.c., ciò che non può accadere nella liquidazione giudiziale. 
La classe, stando alla definizione di cui all’art. 2 lett. r) CCII, è insieme di creditori che hanno posizione giuridica e interessi economici omogenei. La classe, dunque, va costruita, sia soggettivamente che oggettivamente, in modo che l’elasticità del concetto di omogeneizzazione sia la più vasta possibile. Nessuna frammentazione del ceto creditorio è ammissibile quando sia rivolta, solo, alla raccolta del singolo consenso: la classe mira ad una compartimentazione funzionale del trattamento dei creditori e non può essere, invece, l’occasione per marginalizzare il diritto di voice di taluni creditori o, ancor meno, non può celare trattamenti discriminatori.
All’interno di ciascuna classe la proposta deve prevedere identico trattamento, mentre la formazione di più classi non impone un trattamento diverso quando a soggetti con posizione disomogenea, allocati in classi distinte, si intende offrire il medesimo trattamento (art. 112 CCII).
La suddivisione dei creditori in classi non può generare come effetto un rovesciamento dell’ordine delle prelazioni posto che ad una classe che ha un privilegio di rango più basso non può essere offerto un trattamento migliore rispetto a quello garantito alla classe di rango poziore. 
In passato si è a lungo discusso sulla piena discrezionalità del proponente di formare o non formare le classi. La nuova tessitura del codice consente di prendere posizione in modo più lineare. È la legge che stabilisce quando è obbligatorio formare le classi, lasciando al debitore discrezionalità solo nelle ipotesi non previste e, in verità, la libertà del proponente è, ormai, assai ridotta.
In primo luogo, nel concordato con piano di continuità la formazione delle classi è sempre obbligatoria (art. 85 CCII). Tale soluzione è il portato della scelta di condizionare l’omologazione o alla approvazione dell’unanimità delle classi, o all’approvazione della maggioranza o ancora alla approvazione da parte di almeno una classe. Ciò significa che nel concordato in continuità il presupposto approvativo si realizza solo rispetto alle classi e non alla collettività dei creditori (art. 112 CCII).
Non solo. La legge stabilisce ancor più in dettaglio che nei piani di continuità vanno allocati in classi distinte: (a) i creditori privilegiati di cui si prevede un soddisfacimento solo parziale e che perciò sono catalogati tra i creditori interessati alla ristrutturazione e (b) i creditori da qualificare come imprese minori titolari di crediti per prestazioni di beni e di servizi.
Nei concordati diversi da quelli in continuità la formazione delle classi è obbligatoria in relazione a: (a) creditori titolari di crediti previdenziali o fiscali dei quali non sia previsto l’integrale pagamento, (b) creditori titolari di garanzie prestate da terzi, (c) creditori che vengono soddisfatti anche in parte con utilità diverse dal denaro; (d) creditori proponenti il concordato e per le parti ad essi correlate (art. 85 CCII).
Tale disposizione trova la sua fonte nell’art. 6 della L. n. 155/2017 in base al quale si invitava il legislatore delegato a “d) individuare i casi in cui la suddivisione dei creditori in classi, secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei, è obbligatoria, prevedendo, in ogni caso, che tale obbligo sussiste in presenza di creditori assistiti da garanzie esterne”. 
Questo elenco pone da subito un primo interrogativo e cioè se in presenza di situazioni non previste nell’art. 85 sia ora sicuro che la formazione della classe non sia obbligatoria; detto in altro modo, il dubbio è relativo alla tassatività delle fattispecie. Il tono perentorio con cui è declinato l’art. 85 sembra lasciar intendere che solo in questi casi il debitore sia costretto a formare le classi. Una ulteriore complicazione è rappresentata dal fatto che se la regola generale è la libertà di formare le classi, la norma che pone un vincolo può essere intesa come regola eccezionale e, dunque, non suscettibile di interpretazione analogica. In tale cornice la soluzione da prospettare appare densa di criticità: da un lato la tassatività delle ipotesi di classi obbligatorie offrirebbe certezza, ma al contempo potrebbe rivelarsi irrazionale. Ed allora, nonostante la formulazione perentoria, sembra preferibile una lettura più elastica che veda nell’art. 85 un elenco di casi esemplificativi ma non tassativi con la conseguenza che il tribunale, al cospetto di situazioni disomogenee fra creditori, possa, ancora, sindacare la mancata formazione delle classi. 
Infine, la formazione di una classe è obbligatoria quando il piano di concordato prevede modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci e, in ogni caso, per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio. Le classi possono riguardare anche ai soci, ma senza che ciò sia scelta vincolata, quando sono previste delle attribuzioni a loro favore (art. 120 ter CCII). 
La corretta formazione delle classi è condizione di legittimità della proposta concordataria e può, dunque, essere sindacata dal tribunale. L’art. 90 CCII stabilisce che la valutazione sulla corretta conformazione delle classi spetta al giudice quando viene depositata una proposta concorrente, mentre con riferimento alla proposta del debitore il controllo è esercitato al momento dell’omologazione (art. 112 CCII). Queste due disposizioni non sono coordinate fra loro perché stando al dato testuale un controllo preventivo sulla corretta formazione delle classi lo troveremmo solo per le proposte concorrenti; ed allora, per superare questa aporia o si sostiene che il maggior rigore per le proposte concorrenti sia un segno di favore per la proposta del debitore, oppure si può suggerire, con qualche preferenza per questa lettura, che il tribunale eserciti sin dall’inizio della procedura un controllo sulla suddivisione dei creditori in classi essendo chiamato in ogni momento, anche per evidenti ragioni di economia processuale, ad evitare la progressione procedimentale di proposte illegittime e, a tal proposito dall’art. 47, 4° comma, CCII, ricaviamo che il tribunale può invitare il debitore ad effettuare revisioni del piano e le classi sono, appunto, una componente del piano. 
19 . I creditori interessati
Il piano deve indicare quali sono i creditori interessati alla ristrutturazione e quali non lo sono. Si tratta di una novità assoluta derivante dall’adozione della Direttiva 2019/1023.
Di creditori interessati abbiamo già discusso parlando delle misure protettive (anche nella composizione negoziata) perché si è stabilito che taluni effetti delle procedure possano essere diretti selettivamente solo nei confronti di taluni creditori. Allo stesso modo, nel piano di concordato vanno indicati selettivamente i creditori ai quali poi andrà rivolta uaa proposta che non sia obbligata. 
Tra i creditori non interessati vanno inclusi i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca (ancorché la garanzia sia contestata), rispetto ai quali la proposta di concordato prevede l’integrale pagamento. 
Con riferimento al concordato in continuità sono reputati creditori non interessati quelli muniti di diritto di prelazione a condizione che ne sia previsto il soddisfacimento in denaro, per intero, entro centottanta giorni dall’omologazione, ferma però restando la garanzia reale che assiste il credito; se si tratta di lavoratori dipendenti titolari di crediti muniti del privilegio di cui all’art. 2751 bis, n. 1, c.c., il termine è di trenta giorni. Tutti gli altri creditori debbono qualificarsi come creditori interessati e ciò rileva, principalmente, ai fini dell’attribuzione del diritto di voto. Pertanto, è creditore interessato chi è titolare di un privilegio che viene soddisfatto (a) con modalità diverse dal denaro, oppure (b) in un termine superiore a quello previsto dall’art. 109 CCII.
20 . La proposta
Nella prospettata distinzione fra il piano di concordato e la proposta di concordato si è già avuto modo di precisare che la proposta contiene l’impegno del debitore di soddisfare i creditori secondo le più varie modalità che possono consistere nel pagamento di somme di denaro, nel trasferimento di beni, nella assegnazione di titoli di partecipazione, nella semplice allegazione dei vantaggi indiretti che derivano dal concordato in alternativa alla liquidazione giudiziale. 
La proposta deve, allora, rispettare: (i) i vincoli da graduazione (con la flessibilità prevista per il concordato in continuità); (ii) i limiti al soddisfacimento dei creditori privilegiati; (iii) i vincoli da rispetto della par condicio all’interno della classe; (iv) il vincolo derivante dal rispetto della percentuale minima e dall’afflusso di risorse ulteriori nel concordato liquidatorio; (v) il vincolo derivante dal pagamento di una somma di denaro ma ai soli fini del voto. Oltre ai vincoli sopra indicati tutti e proprio tutti i creditori debbono ricevere dalla proposta una utilità economica.
21 . I vincoli da graduazione
Il vincolo più consistente è quello che attiene alla graduazione. Nel regime previgente, secondo la lezione corrente, le risorse derivanti dal patrimonio del debitore dovevano essere distribuite secondo una gradazione discendente per effetto della quale non si poteva proporre il soddisfacimento di un creditore della classe inferiore se prima non era integralmente soddisfatto il creditore della classe poziore. Soltanto le risorse esterne a quel patrimonio potevano essere liberamente ripartite dal debitore.
Le regole sono cambiate ed ora il perimetro di applicazione della vecchia regola, cioè l’absolute priority rule, riguarda (i) il concordato con piano di liquidazione, (ii) il concordato in continuità ma nei limiti di quello che è definito come “valore di liquidazione” e (iii) i crediti di lavoro dipendente per i quali il privilegio generale è esercitato anche sul valore eccedente quello di liquidazione. Nel concordato liquidatorio resta, dunque, ferma la regola della graduazione verticale assorbente. Nel concordato in continuità la distribuzione delle risorse avviene in modo diverso: (a) in primo luogo occorre valutare la dimensione del patrimonio statico del debitore simulando quanto si ricaverebbe se l’attivo venisse liquidato; tuttavia, poiché nella liquidazione giudiziale è prevista anche una provvisoria continuazione dell’esercizio dell’impresa (art. 211 CCII), va preferita l’interpretazione secondo la quale nel valore di liquidazione debba essere compreso anche il risultato netto (patrimonio dinamico) di un possibile esercizio provvisorio; (b) in secondo luogo occorre valutare quali risorse possono essere conseguite con la continuazione dell’attività e se queste risorse nel loro complesso superano il valore di liquidazione, per la parte eccedente il debitore può ripartire le risorse osservando una regola diversa e più flessibile perché è sufficiente che alle classi di rango poziore sia attribuito un soddisfacimento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole (ma non integrale) rispetto a quello delle classi di grado inferiore (relative priority rule).
22 . La proposta ai creditori privilegiati
Sino al 2005 la legge stabiliva che i creditori privilegiati dovessero essere soddisfatti per l’intero; poi la regola è stata cambiata ed ora nel codice della crisi viene ribadito il principio per il quale a ciascun creditore privilegiato non può essere offerto un soddisfacimento che sia inferiore al valore del bene ritraibile dalla sua liquidazione (art. 84, 5° comma, CCII). Per stabilire il valore di liquidazione si devono calcolare anche i costi specifici della liquidazione e una quota parte dei costi generali della procedura di liquidazione giudiziale presa come termine di comparazione. 
La proposta che prevede il soddisfacimento solo parziale dei creditori privilegiati deve essere accompagnata dalla attestazione di un professionista indipendente che certifica quale sarebbe il valore di liquidazione. 
La c.d. falcidia dei crediti privilegiati incide anche sull’ammissione del creditore al voto, considerando che la parte di credito rimasta insoddisfatta deve essere trattata come credito chirografario e non deve essere stralciata. Infatti, gli artt. 153, 1° comma, e 224 CCII esprimono un principio generale e cioè quello secondo il quale il credito munito di prelazione si esercita dapprima sul bene (o sui beni) sui quali insiste il privilegio e poi, per la porzione non soddisfatta, concorre con gli altri creditori. Ove mai si ritenesse che il creditore munito di pegno, ipoteca o privilegio speciale su un bene dovesse, per forza, essere soddisfatto solo col provento del ricavato di quel bene, potrebbe finire con l’essere pregiudicato rispetto al creditore chirografario. Da ciò ne consegue che il creditore che vanta una prelazione speciale ha diritto di percepire in via chirografaria quanto non riscuote dal ricavato della vendita del singolo cespite. Nel caso di falcidia, il voto va espresso separatamente tra la parte che trova capienza e la parte degradata.
Nel concordato liquidatorio quando il credito è munito di privilegio generale (art. 2746 c.c.), il confronto tra credito e valore del bene va operato sull'intera massa mobiliare e, se il titolo di prelazione goda anche della collocazione sussidiaria sugli immobili, il confronto tra credito e valore del bene va svolto con riguardo all'intero patrimonio del debitore; pertanto, il trattamento parziale si giustifica solamente quando nel patrimonio non esistano altri beni. Da ciò consegue che il pagamento dei crediti che si trovano collocati nell'ordine delle prelazioni sottostanti è possibile facendo ricorso, esclusivamente, alla c.d. ‘finanza esterna’.
Il che a ben vedere significa che si procede con l'ordine delle prelazioni (“degradando da privilegio in privilegio”) soltanto se il credito collocato in più alto grado è stato interamente soddisfatto.
Il divieto dell’alterazione dell'ordine delle prelazioni significa che ove sia certificata l'incapienza del patrimonio del debitore per soddisfare tutti i creditori privilegiati, il pagamento parziale non può premiare di più un credito di rango inferiore: (i) il trattamento del creditore titolare di una causa di prelazione non può prescin­­dere da una comparazione valutativa con il bene oggetto della garanzia; (ii) il trattamento fra creditori non può contraddire l’ordine delle prelazioni, sì che nella proposta il debitore subisce i vincoli che si possono definire ‘da graduazione’.
Qualora il patrimonio del debitore non consenta la soddisfazione integrale del creditore munito di prelazione generale e pur tuttavia con risorse esterne sia possibile procedere al soddisfacimento degli altri creditori, è ragionevole ritenere che queste risorse aggiuntive possano essere destinate dal debitore ai creditori senza il vincolo della graduazione, posto che altrimenti ne verrebbe divelta la stessa possibilità di non soddisfare integralmente i creditori privilegiati. 
Per i privilegi generali, specie quelli muniti di collocazione sussidiaria, in caso incapienza del patrimonio, la quota incapiente va collocata fra i creditori chirografari solo virtualmente in quanto ove vi siano risorse da distribuire a costoro, allora prima dovrebbero essere destinate ai creditori privilegiati. La massa attiva da distribuire fra i creditori (privilegiati generali e chirografari) è una soltanto; se si assume che il creditore con privilegio generale va soddisfatto solo in parte perché il valore dei beni è insufficiente, non vi possono essere risorse residue da desti­nare ai creditori, salvo che non siano risorse esterne, ma per queste si è visto che il debitore può fare scelte in autonomia senza rispettare l’ordine di gradua­zione.
23 . Tempi di adempimento e moratoria
Nel § precedente abbiamo visto quale deve essere la misura di soddisfacimento dei creditori privilegiati; tuttavia, è importante per il creditore destinatario della proposta sapere anche quando il suo credito verrà soddisfatto e al proposito il piano deve stabilire la tempistica di adempimento. Il creditore munito di privilegio speciale, pegno o ipoteca dovrebbe essere pagato al momento della liquidazione del bene sul quale insiste il privilegio e se il piano ha natura liquidatoria non v’è dubbio che così debba accadere. Il creditore munito di privilegio generale, invece, viene soddisfatto progressivamente con la liquidazione del patrimonio. Viceversa, nel caso del concordato in continuità il bene gravato da un privilegio (o l’intero patrimonio) potrebbe non essere mai liquidato perché i cespiti sono funzionali alla prosecuzione dell’attività. In questo caso la proposta può prevedere che i creditori privilegiati siano soddisfatti nel tempo indicato nel piano (moratoria) salvo che il bene sia liquidato nel quale caso il creditore privilegiato va soddisfatto subito dopo la liquidazione. Tuttavia, a maggior protezione dei diritti dei lavoratori, la moratoria non può oltrepassare i sei mesi successivi all’omologazione per i crediti muniti del privilegio di cui all’art. 2751 bis n. 1 c.c.
24 . La proposta ai creditori chirografari
Posti questi vincoli con riguardo ai creditori privilegiati, per quelli chirografari solo in presenza di concordato con piano di liquidazione il debitore deve assicurare un soddisfacimento minimo (almeno il venti per cento) del credito ma con la precisazione che il quoziente del venti per cento va tarato sull’intero ammontare dei crediti chirografari e non sulla singola posizione di credito. Non vi è, invece, una soglia minima per le proposte che si basano su un piano di continuità fermo restando che a ciascun creditore deve essere assicurata una utilità misurabile economicamente.
25 . Approvazione del concordato
Nel concordato liquidatorio deve essere raggiunta la maggioranza assoluta sull’ammontare dei crediti ammessi al voto; pertanto, il voto è validamente espresso solo se c’è una volontà manifesta: l’astensione dal voto equivale a silenzio-rifiuto. 
Se la proposta prevede la suddivisione dei creditori in classi, deve essere raggiunta anche la maggioranza delle classi e nelle classi la maggioranza è quella assoluta in relazione ai crediti (e non alle ‘teste’). Per evitare che un unico creditore possa imporre la sua volontà su quella di tutti gli altri, laddove un unico creditore sia titolare di crediti in misura superiore alla maggioranza dei crediti ammessi al voto, il concordato è approvato se, oltre alla maggioranza assoluta sui crediti, sia conseguita anche la maggioranza per teste dei voti espressi dai creditori ammessi al voto. 
Nel concordato in continuità le regole di approvazione sono diverse e sono intese a favorire l’approvazione. In primo luogo, va rammentato che è obbligatoria la formazione delle classi, per cui occorre, sempre, che vi sia il voto favorevole della unanimità delle classi (o almeno della maggioranza delle classi ai fini della ristrutturazione trasversale di cui all’art. 112 CCII). In secondo luogo, ai fini dell’approvazione dei creditori all’interno di ciascuna classe, vi sono due regole in ordine scalare: (i) la maggioranza si forma con il voto palese favorevole della maggioranza assoluta sull’ammontare dei crediti ammessi al voto; (ii) se la maggioranza assoluta non è raggiunta, la proposta si intende, comunque, approvata quando vi è il voto favorevole di almeno due terzi dei creditori votanti, purché questi siano almeno la maggioranza dei creditori ammessi al voto: tale criterio sussidiario è volto a sterilizzare la condotta dei creditori apatici che non votando, in realtà, non manifestano alcuna propensione al voto (né favorevole, né contrario).
Se la maggioranza non è stata raggiunta, il commissario ne informa il giudice delegato che a sua volta provoca dal collegio una decisione che pone fine al concordato e se vi sono istanze provenienti da soggetti ‘qualificati’, il tribunale dichiara l’apertura della liquidazione giudiziale, mentre se queste non vi sono dovrà essere dichiarata l’improcedibilità del concordato
La verifica sulla intervenuta approvazione dei creditori sconta, però, la necessità di operare un confronto con quanto potrebbe accadere in occasione del giudizio di omologazione. In tale ottica, l’art. 111 CCII nella parte in cui prevede che il giudice delegato informa immediatamente il tribunale della mancata approvazione può trovare applicazione diretta solo nel caso dei concordati non in continuità perché rispetto a questi la non approvazione di tutte le classi deve confrontarsi con l’omologabilità ai sensi dell’art. 112 CCII in presenza della maggioranza o persino del voto favorevole di una sola classe (quella ‘pregiudicata’), considerando che l’art. 112 è espressamente richiamato nel corpo del 5° comma dell’art. 109.
Ove venga aperta la liquidazione giudiziale, sarà possibile impugnare la sentenza ai sensi dell’art. 51 CCII con reclamo alla corte d’appello; ove, al contrario, vi sia solo il decreto di cessazione della procedura, questo potrà parimenti essere reclamato applicandosi in via analogica la disposizione di cui all’art. 47, 5° comma, CCII nella parte in cui è previsto il reclamo – entro trenta giorni - contro il decreto di inammissibilità del concordato. Mentre la decisione sul reclamo contro la sentenza che ha aperto la liquidazione giudiziale è ricorribile per cassazione, così non dovrebbe accadere per il reclamo contro il decreto trattandosi di provvedimento non definitivo, visto che la domanda può essere riproposta.
Un diverso meccanismo di approvazione è previsto se confluiscono al voto due o più proposte concorrenti (art. 109, 2° comma). La pluralità delle proposte non abbassa il quoziente di approvazione, nel senso che la maggioranza vi sarà sempre e soltanto se si raggiungerà almeno la metà dei crediti ammessi al voto oltre alla unanimità o maggioranza delle classi; peraltro, poiché le più proposte potrebbero provocare una dispersione del voto, si è immaginato che qualora al termine del primo round nessuna proposta abbia superato la soglia di maggioranza, la proposta meglio piazzata, andrebbe ad una sorta di barrage, per vedere se, eliminati i concorrenti, sulla proposta unica rimasta in competizione si può coagulare il voto di maggioranza. 
A tal proposito, in presenza di proposte diverse, talune con suddivisione dei creditori in classi ed altre senza tale suddivisione, la prevalenza nella “fase eliminatoria” va assicurata a quella che ha raggiunto la maggioranza totale più elevata, ma a condizione che vi sia la maggioranza delle classi. Le complicazioni sopra accennate, presuppongono che un creditore possa, legittimamente, esprimere consenso a più proposte, quando a suo avviso il concordato sia comunque preferibile rispetto alla liquidazione giudiziale.
Nella seconda eventuale votazione si azzerano tutti i risultati della prima, con i seguenti corollari: (i) ciascun creditore può cambiare il proprio voto sia passando da quello contrario a quello favorevole che viceversa; (ii) ciascun creditore deve pronunciarsi, espressamente, una seconda volta, entro venti giorni dal provvedimento del giudice di riapertura della votazione.
Se coesistono più proposte, esse vanno tutte ammesse al voto contemporaneamente, nel senso che l'una non esclude l'altra, e l'ordine di voto è di natura temporale: prima quella del debitore, poi quelle successivamente intervenute.
Proprio per la necessità che tutte vengano traghettate verso il voto, l'eventuale raggiungimento della maggioranza di una non chiude il procedimento, con la conseguenza che anche le successive proposte saranno oggetto di votazione da parte dei creditori.
26 . Il controllo del giudice ai fini dell’omologazione
Nella Sezione II sarà trattato il giudizio di omologazione dal versante processuale e cioè si disegnarà il percorso del procedimento e sono stati presi in considerazione gli strumenti di impugnazione.
In questa sede, invece, è necessario prendere posizione su ciò che deve essere valutato dal tribunale ai fini di pronunciare la sentenza di omologazione. La norma di riferimento è l’art. 112 CCII frutto della più intensa influenza esercitata dalla Direttiva 2019/1023.
Il tribunale deve effettuare un controllo di legittimità che attiene ai tre formanti del concordato.
Il controllo sulla domanda si esercita verificando il rispetto delle regole del procedimento ad iniziare dalla verifica della competenza, della legittimazione e di quanto è già stato esaminato in sede di apertura, posto che il decreto reso ex art. 47 CCII non esclude affatto che un identico controllo sia eseguito in occasione dell’omologazione.
Il controllo sul piano ha per oggetto: (i) la fattibilità del concordato nei limiti indicati nell’art. 47 CCII (v., supra); (ii) la corretta formazione delle classi, ciò che si traduce nella verifica che (ii/a) le classi non alterino l’ordine delle prelazioni, (ii/b) all’interno di ciascuna classe il trattamento sia paritario; (iii) la proposta abbia rispettato le regole che impongono al debitore la suddivisone dei creditori in classi (artt. 84 e 85 CCII).
Questi due controlli (domanda e piano) vanno svolti per tutti i modelli di piani concordatari pur se il giudizio sulla fattibilità è diverso e più profondo per i concordati di liquidazione. Nel concordato in continuità il controllo sul piano comporta anche la verifica che non sia privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza e che eventuali nuovi finanziamenti siano necessari per l’attuazione del piano e non pregiudichino ingiustamente gli interessi dei creditori. Più precisamente, il tribunale deve valutare che se l’impresa è in crisi il piano consenta di evitare l’insolvenza e al contempo di superare la crisi; se l’impresa già si trova in situazione di insolvenza il piano deve essere in grado di rimuoverla.
Il controllo sui finanziamenti deve essere letto in parallelo con le disposizioni di cui agli artt. 94, 99, 101 e 102 CCII; il codice della crisi, infatti, prevede che i finanziamenti siano sempre sostenuti da una autorizzazione del giudice, o semplicemente perché siano opponibili ai creditori oppure perché si vuole attribuire al finanziatore il beneficio della prededuzione. Fermo restando che i finanziamenti godono di una serie di protezioni (non invalicabili, però, in caso di successiva liquidazione giudiziale), occorre chiedersi a quale ragione si ispiri il controllo previsto nell’art. 112 CCII, frutto di una evidente derivazione dalla Direttiva 2019/1023. 
Se possiamo escludere che il tribunale in occasione dell’omologazione possa revocare i benefici derivanti dalle precedenti autorizzazioni, non possiamo invece scartare l’ipotesi di una rivalutazione sulla onerosità del finanziamento, sulla incapacità dell’impresa di rimborsarlo o sulla necessità di utilizzare risorse già riservate ai creditori anteriori che si rivelino circostanze idonee a negare l’omologazione e ciò per evitare un depauperamento dei diritti dei creditori. 
Il controllo sulla proposta è assai più complesso perché si interseca con il controllo anche sull’esito delle votazioni.
Il tribunale verifica l’avvenuta approvazione del concordato riscontrando che siano state raggiunte le maggioranze per numero dei crediti e per classi di cui all’art. 109 CCII. 
Operato questo primo accertamento, comune a tutti i concordati, le successive indagini vanno esaminate separatamente.
Nel concordato in continuità la regola di approvazione, posta l’obbligatorietà della formazione delle classi, è costituita dalla unanimità delle classi. Se vi è unanimità, il tribunale deve valutare che il trattamento offerto ai creditori nella proposta sia conforme ai limiti legali imposti (ad esempio a proposito del rispetto minimo del soddisfacimento dei creditori privilegiati) ma soprattutto deve verificare che sia stato rispettato l’ordine di distribuzione delle risorse.
Come si è già enunciato a proposito della conformazione della proposta, nel concordato in continuità le regole di distribuzione del valore sono più elastiche perché il rigoroso rispetto della graduazione e della garanzia patrimoniale (artt. 2740, 2741, 2777 ss. c.c.) è limitato a quanto ricavabile dalla liquidazione del patrimonio, mentre le risorse eccedenti, frutto della continuità aziendale, sono parti integranti del patrimonio del debitore e non possono essere ripartite liberamente (come accade per quelle che possiamo definire vere e proprie risorse esterne che non entrano mai a far parte del patrimonio del debitore e che sono assegnate direttamente ai creditori) e vanno distribuite sì in ordine verticale ma senza che sia necessario soddisfare integralmente il credito collocato, secondo le regole della graduazione, in posizione superiore. Così, dato 100 il valore di liquidazione e dato 30 il valore eccedente, se il passivo è composto da 80 di crediti da lavoro dipendente, da 55 di crediti dei professionisti e 200 da crediti fiscali, il debitore deve attribuire ai dipendenti 80, ai professionisti 20 e l’eccedenza di 30 anziché essere destinata interamente ai professionisti può essere assegnata per una percentuale, purchè questa sia almeno pari a quanto attribuito al creditore di rango inferiore: 70% di 30 ai professionisti e 30% all’Erario. 
L’art. 112 stabilisce che questa valutazione vada operata rispetto alle classi dissenzienti perché nel caso del consenso di tutte le classi si presume una corretta distribuzione del valore.
Quando non è stata raggiunta l’unanimità delle classi è tuttavia, ancora, possibile omologare il concordato in presenza di altre condizioni, condizioni tra loro alternative e non concorrenti (c.d. ristrutturazione trasversale). All’esito della fase di approvazione e del mancato raggiungimento della unanimità, il debitore può chiedere che venga in ogni caso fissata l’udienza per l’omologazione perché in quella sede il tribunale può valutare che anche in difetto di approvazione il concordato sia omologabile (artt. 109, 111 e 112 CCII letti in modo sequenziale).
Ed allora, quando sono state rispettate le regole di distribuzione del valore il tribunale omologa il concordato quando la proposta è approvata dalla maggioranza delle classi, purché almeno una di quelle che formano la maggioranza sia costituita da creditori titolari di diritti di prelazione; ricordiamo, infatti, che al voto partecipano anche i creditori assistiti da diritti di prelazione perché essi vanno reputati creditori non interessati nel solo caso in cui siano soddisfatti per intero ed entro un certo tempo. Poiché per la parte capiente sono collocati in una classe autonoma si comprende la ragione per la quale il loro voto favorevole è considerato decisivo ai fini dell’omologazione: i creditori privilegiati soddisfatti parzialmente nei limiti della garanzia non hanno un interesse specifico perché ricevono quanto otterrebbero dalla liquidazione, sì che un loro voto a favore assume un significativo sostegno al debitore.
Se non si è formata neppure la maggioranza delle classi, il concordato può essere egualmente omologato quando vi è il voto favorevole di almeno una classe purché composta di creditori che sarebbero quanto meno parzialmente soddisfatti rispettando la graduazione delle cause legittime di prelazione anche sul valore eccedente quello di liquidazione. Nell’esempio sopra esposto, il concordato potrebbe essere omologato se la proposta prevedesse il pagamento ai professionisti di 35 (20 sul valore di liquidazione e 15 sul valore eccedente) che invece avrebbero diritto a 55 applicando la graduazione rigida anche sul valore eccedente. In sostanza, se i creditori svantaggiati, ferma restando la waterfall di cui all’art. 84 CCII, approvano il concordato, il tribunale può omologare la proposta.
Questo indubbio favor per la proposta concordataria in continuità trova però un contrappeso nel fatto che ciascun creditore dissenziente (anche se appartiene ad una classe consenziente) può opporsi all’omologazione e rappresentare che il trattamento offertogli non è conveniente rispetto alla alternativa della liquidazione giudiziale, per cui in caso di opposizione l’omologazione può intervenire soltanto se il tribunale verifica l’assenza di pregiudizio. Il rischio dell’opposizione di singoli creditori è un serio stimolo al debitore a non confezionare proposte discriminatorie. Quando è contestata la convenienza ed occorre valutare comparativamente i valori, è possibile procedere con la stima del complesso aziendale del debitore (operazione, però, non impedita anche in altri casi se necessario).
Nei concordati con piani diversi dalla continuità, il sindacato sulla convenienza può essere richiesto (i) da un creditore dissenziente appartenente a una classe dissenziente ovvero (ii) se non sono state formate le classi da una massa di creditori dissenzienti che rappresentano il venti per cento dei crediti ammessi al voto; in tal caso il tribunale può omologare il concordato qualora ritenga che il credito possa risultare soddisfatto dal concordato in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale.
Quando pronuncia sentenza di omologazione il tribunale deve adottare le misure necessarie a tutela dei creditori contestati e ciò al fine di evitare che l’adempimento del concordato rechi loro pregiudizio con la dispersione delle risorse prima della risoluzione delle contestazioni.
27 . Omologazione e operazioni straordinarie
Il piano di concordato (art. 87 CCII) può fondarsi sul compimento di operazioni straordinarie di trasformazione, fusione o scissione che riguardano sì la società debitrice (trasformazione e scissione) ma che possono coinvolgere anche società terze come nel caso della fusione.
Queste operazioni possono essere previste dal piano come operazioni riorganizzative da realizzare durante la procedura di concordato oppure in esecuzione del piano e della proposta; spesso queste operazioni sono determinanti per la riuscita del piano così assumendo un ruolo centrale nel concordato. A tal fine si è previsto che le contestazioni su queste operazioni, provenienti dai creditori – tanto della società debitrice quanto delle società terze coinvolte – siano assorbite, necessariamente, dal giudizio di omologazione. Pertanto, tutti i creditori che ritengono di subire un pregiudizio non possono impugnarle con i rimedi del codice civile (artt. 2445, 2500-novies, 2503 e 2506 ter c.c.) ma devono opporsi all’omologazione del concordato. 
A maggior protezione dei creditori delle società terze, il tribunale quando fissa l’udienza per l’omologazione deve lasciare uno spazio temporale di almeno trenta giorni tra la data dell’udienza e la data in cui il piano è pubblicato nel registro delle imprese del luogo ove hanno sede le società interessate dalle operazioni di trasformazione, fusione o scissione. In questo modo i creditori delle società terze possono prendere conoscenza dell’operazione e possono impugnarla opponendosi al concordato.
La soluzione di concentrazione delle opposizioni nell’unico contenitore del giudizio di omologazione è volta ad evitare che all’esterno del procedimento di concordato possano essere messi in discussione i pilastri portanti del piano; sennonché, il rischio non è del tutto disinnescato posto che i soci delle società terze e della società in concordato non sono vincolati dall’art. 116 CCII e non si può impedire loro di opporsi all’operazione societaria. 
V’è ancora da chiedersi se la concentrazione delle opposizioni da parte dei creditori assorba ogni altro mezzo di tutela, ovvero se i creditori possano lamentare un pregiudizio promuovendo azioni di risarcimento del danno. Benché la norma faccia esplicito riferimento all’impugnativa della validità delle operazioni se si postula che il valore da assicurare sia quello della stabilità degli atti e non solo, si può preferire una lettura più ampia che impedisce ai creditori delle società di agire per il risarcimento del danno nei confronti dell’impresa in concordato, fermo restando per tutti i creditori il diritto di promuovere le azioni di responsabilità di cui all’art. 2394 c.c., legittimate anche dall’art. 115 CCII.
Oltre alle limitazioni in tema di opposizioni alle operazioni straordinarie, la società si avvantaggia di una ulteriore opportunità perché i soci che avrebbero diritto di recedere dalla società ai sensi dell’art. 2437 c.c. per le s.p.a. e art. 2473 c.c. per le s.r.l. non possono esercitare tale diritto sino a che non è stata data attuazione al piano. L’esclusione del diritto di recesso serve ad evitare che la società debba ulteriormente indebolirsi per la necessità di rimborsare il valore della quota che, nonostante la crisi, non è detto sia inconsistente.
28 . Il concordato delle società
Nel codice della crisi, dopo le norme sugli strumenti di regolazione, è stata aggiunta una Sezione VI bis dedicata agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle società(artt. 120 bis / 120 quinquies CCII). Si tratta di una serie di disposizioni volte ad offrire una disciplina specifica per i concordati in cui il debitore è una società e, segnatamente, salvo la prima norma, una società di capitali. Abbiamo già avuto modo di vedere che la deliberazione di accesso agli strumenti di regolazione della crisi è affidata in via esclusiva all’organo amministrativo mentre la sottoscrizione della domanda compete a chi ne ha la legale rappresentanza (art. 120 bis). 
Tuttavia, il nucleo principale di questo plesso di norme è costituito da una serie di regole che a ben vedere riguardano il trattamento dei soci, questione che prima del codice era totalmente trascurata. Sulla scia della Direttiva 2019/1023 e sulla base del teorema per il quale la continuità dell’impresa può generare valore e questo valore ‘nuovo’ può essere con qualche modalità acquisito dai soci si è disciplinato il modo in cui una proposta di concordato può coinvolgere i soci.
Orbene, questo coinvolgimento non è lineare perché troviamo disposizioni che restringono i diritti dei soci ed altre che li espandono. In tal senso occorre molta prudenza nell’esame delle nuove regole.
Queste regole vengono esaminate nella partizione del Volume dedicata al concordato perché, in prevalenza, le norme riguardano il concordato, ma con l’avvertenza che alcune di essere, invece, si attagliano anche agli altri strumenti come accade per la già considerata regola in tema di deliberazione.
Parimenti, qualunque sia lo strumento prescelto l’organo amministrativo deve informare i soci dell’avvenuta decisione di accedere a uno strumento e a riferire periodicamente del suo andamento: tale dovere di informazione è previsto proprio perché alla assemblea dei soci è sottratto ogni potere in relazione alla decisione di reagire alla crisi, visto che questa è attribuita agli amministratori. L’informazione è poi prevista anche a procedura pendente affinché i soci siano messi nella condizione di valutare se adottare determinate prerogative che la legge a loro assegna.
Tuttavia, tra queste prerogative è neutralizzato il potere della assemblea di revocare gli amministratori se non per giusta causa e ciò per tutto il periodo compreso tra l’iscrizione della deliberazione di accesso e il provvedimento che decide sull’omologazione: la legge esclude che sia motivo per la revoca per giusta causa il fatto che l’organo amministrativo abbia deciso l’accesso ad uno strumento sempre che ciò sia avvenuto nell’osservanza della legge. Ovviamente, questo non esclude che – ad esempio anche con riferimento alla scelta sul tipo di strumento – la deliberazione possa essere contestata con l’esercizio di una azione di responsabilità che resta prerogativa della società (artt. 2393 e 2476 c.c.) anche se in tal caso, l’esercizio dell’azione non determina la revoca ‘incidentale’ di cui all’art. 2393 5° comma c.c.
Proprio al fine di evitare deliberazioni di revoca strumentali l’art. 120 bis stabilisce che il potere della assemblea di procedere alla revoca, pendente lo strumento, è condizionato ad un decreto di approvazione del tribunale reso dopo che sono state sentite le parti.
Una norma comune ai diversi strumenti e che possiamo catalogare come norma di sfavore è quella che consente che il piano di ristrutturazione, al fine di agevolerne un esito positivo, può prevedere qualsiasi modificazione dello statuto della società debitrice, ivi inclusi aumenti e riduzioni di capitale anche con limitazione o esclusione del diritto di opzione e altre modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci, oltre alle già ricordate operazioni di fusione, scissione e trasformazione.
Sino ad ora eravamo stati abituati a pensare che, in disparte alcune fattispecie (le proposte concorrenti nel concordato preventivo e in quello fallimentare e le attività di liquidazione dell’attivo fallimentare con la creazione di nuove società) i diritti dei soci sulle loro partecipazioni fossero intangibili perché i diritti partecipativi rappresentano un valore che è estraneo al patrimonio responsabile (art. 2740 c.c.).
Questa visione tradizionale è stata superata da una visione policentrica dell’impresa che, in una situazione di crisi, non è costituita solo dai valori del patrimonio aziendale ma anche dai valori partecipativi perché la ristrutturazione pertiene alla dimensione dell’impresa e non a quella della società. Corretta o no che sia questa lettura alternativa, non v’è dubbio che il diritto positivo estenda l’oggetto della ristrutturazione anche ai diritti partecipativi dei soci. Da qui la previsione che con il concordato l’organo amministrativo, senza il placet della assemblea, possa modificare la struttura finanziaria della società ma ciò ad una condizione ben precisa: l’operazione deve essere decisa ai fini del buon esito della ristrutturazione e con ciò si intendono ostacolare quelle manovre che sotto l’egida di una ficta ristrutturazione siano dirette a modificare la composizione del capitale senza l’osservanza dello statuto dei soci.
Tutte queste regole vanno applicate, nei limiti della compatibilità agli enti collettivi non societari che esercitano attività d’impresa (art. 120 bis ult. comma).
Orbene, tutte le modificazioni che pertengono alla compagine societaria frutto delle operazioni previste nel piano dello strumento di regolazione della crisi non producono effetto sui contratti stipulati dalla società (con inefficacia di eventuali patti contrari): sono, dunque, destinate a non operare le cc.dd. clausole di change of control, cioè quelle pattuizioni negoziali in forza delle quali il mutamento dell’assetto proprietario costituisce evento rilevante per la risoluzione o per il recesso dal contratto.
29 . La partecipazione del socio al voto
Sebbene il plesso normativo che stiamo esaminando sia incuneato nel codice all’esterno delle norme sul concordato, la maggior parte delle disposizioni assume rilievo solo nella cornice concordataria e parzialmente in quella del piano di cui all’art. 64 bis CCII.
Così, l’art. 120 ter CCII là dove richiama la nozione di classe è applicabile al concordato preventivo e al piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione. 
Mentre in passato i soci non avevano alcun diritto di partecipare al processo di approvazione del concordato, ora il codice della crisi ‘sdogana’ questa posizione di subalternità e assegna ai soci la possibilità di esprimersi sulla proposta di concordato in due casi tra loro opposti.
Quando il piano di concordato modifica i diritti partecipativi la formazione delle classi di soci è obbligatoria e questa ipotesi ricomprende anche quella che ricorre se la società in concordato fa ricorso al mercato del capitale di rischio.
Quando, invece, il piano e la proposta prevedono attribuzioni ai soci la formazione della classe è facoltativa e tuttavia è incentivata. In verità, vanno formate più classi di soci quando diverse sono le categorie di azioni o di quote e quando vi sono strumenti finanziari partecipativi soggetti al rischio del mancato rimborso.
Nella classe il socio voto in misura pari alla quota di capitale che detiene al momento dell’apertura del concordato ma nel caso in cui non si esprima, il silenzio vale consenso, a differenza di quanto accade per i creditori. Questa regola appare in sintonia con il caso in cui il piano preveda una attribuzione per i soci perché i soci ricevono qualcosa cui non potrebbero aspirare nel caso della liquidazione giudiziale. Tutto sommato risulta in armonia anche quando si tratta di votare su una proposta che si regge su un piano che sopprime le partecipazioni perché questo evento potrebbe parimenti verificarsi nella liquidazione giudiziale (art. 264 CCII).
30 . Le classi dei soci
La classe (o le classi) dei soci non concorrono a formare le maggioranze per l’approvazione del concordato. 
Tuttavia, nel concordato in continuità (l’unico che può prevedere attribuzioni a favore dei soci) quando non è raggiunta l’unanimità delle classi e si è formata solo la maggioranza, il dissenso della classe dei creditori va valutato non solo ai sensi dell’art. 112 ma anche in base 
ad una ulteriore comparazione. Infatti, quando il valore risultante dalla ristrutturazione è attribuito anche ai soci, il concordato può essere omologato se il trattamento proposto a ciascuna delle classi dissenzienti è almeno altrettanto favorevole rispetto a quello proposto alle classi del medesimo rango e più favorevole di quello proposto alle classi di rango inferiore, anche se a tali classi venisse destinato il valore complessivamente riservato ai soci. In sostanza, come per la ristrutturazione trasversale, i creditori delle classi dissenzienti possono sì ricevere un trattamento inferiore a quello che riceverebbero con la regola della absolute priority rule ma alla condizione che la “perdita” non derivi da attribuzioni riconosciute ai soci, posto che i soci in quanto residual claimants non possono prevaricare i creditori. Questa conclusione è avvalorata dalla regola sussidiaria secondo la quale l’ultima classe dei creditori non può ricevere meno di quello che è complessivamente riservato ai soci (art. 120 quater CCII).
Il termine di comparazione tra attribuzioni ai creditori e attribuzioni ai soci deve tener conto della valorizzazione di quelle assegnate ai soci e che si identificano nelle loro partecipazioni e negli strumenti che attribuiscono il diritto di acquisirle, dedotto il valore da essi eventualmente apportato ai fini della ristrutturazione in forma di conferimenti o di versamenti a fondo perduto oppure, per le imprese minori, anche in altra forma; i soci possono opporre, in una sorta di compensazione atipica, che quanto riceveranno dovrà essere conteggiato al netto delle risorse che hanno immesso ai fini della ristrutturazione. Si tratta di una comparazione estremamente complessa perché deve tener conto di una pluralità di fattori e in particolare del valore della società al termine della ristrutturazione.
La partecipazione dei soci al voto è funzionale alla approvazione della manovra finanziaria o della previsione di attribuzioni. Pertanto, i soci dissenzienti, da intendersi come quelli che sono inseriti in classi che hanno negato il consenso, possono opporsi all’omologazione del concordato al fine di far valere il pregiudizio subito rispetto all’alternativa liquidatoria. Si tratta di una dimostrazione non agevole perché presuppone che sia elevato il valore della ristrutturazione rispetto a quello di liquidazione e che nel primo abbiano trovato eccessiva soddisfazione i creditori anteriori.
31 . Il concordato di gruppo
L’istituto concorsuale che più di tutti aveva risentito della carenza di una normativa sui gruppi era senz’altro il concordato preventivo. Non a caso le decisioni più interessanti, in materia di crisi, relative ai gruppi si reperiscono alla voce “concordato preventivo”, là dove si trovano precedenti molto rigidi (la maggior parte) nei quali si negava ogni rilevanza giuridica del gruppo ed altri (la parte minoritaria) nei quali si cercava qualche spiraglio di apertura per cercare nelle pieghe della legge qualche spunto per organizzare concordati di gruppo. Le letture più avanzate non hanno avuto successo e spesso ci si è accontentati di semplici misure organizzative di coordinamento; altri tentativi, più ambiziosi ma anche più fantasiosi, sono stati stroncati dal giudice di legittimità che ha esplicitamente declamato l’inesistenza della figura giuridica del concordato di gruppo. In questa prospettiva non si può che salutare con favore le nuove regole, sebbene non siano, ancora, del tutto appaganti, risultando presenti alcune imprecisioni che potrebbero minarne l’effettività.
Il tema più delicato, come è noto, è quello della confusione, anche solo parziale, dei patrimoni allocati nelle diverse entità; la confusione, infatti, contraddice l’idea di fondo su cui si basa l’organizzazione di gruppo e cioè la parcellizzazione delle responsabilità. Unificare le masse è risultato opposto alla separazione voluta dal gruppo. Se, però, questa è la volontà del debitore, rinnegare la scelta originaria non dovrebbe essere ostacolo al consolidamento. Il consolidamento potrebbe essere uno strumento di riequilibrio accertando che i creditori hanno fatto affidamento su un unico centro soggettivo, ma presupporrebbe una indagine sullo stato soggettivo di affidamento dei creditori; parimenti, il riequilibrio dovrebbe essere affidato a meccanismi risarcitori all’interno delle imprese, ma è noto che la tutela risarcitoria tra più soggetti tutti sottoposti a procedura è inefficiente visto che il credito risarcitorio troverebbe collocazione chirografaria. Tale ottica consente, allora, di ritenere giustificati i tentativi, comunque cauti, di non ostacolare possibili passaggi di risorse da una impresa all’altra.
Le disposizioni di cui agli artt. 284-286 CCII dettate in tema di concordato preventivo di gruppo, salve le incompatibilità correlate ai piani di continuità, sono applicabili anche al concordato semplificato perché dalle norme degli artt. 23 e 25 CCII si ricava che tale procedura può essere attivata all’esito della composizione negoziata di gruppo con la presentazione di un piano unitario.
32 . Il consolidamento processuale
Procedendo per gradi ascendenti, va rilevato che sono state previste misure organizzative di concentrazione procedimentale che in talune situazioni si trasformano in misure di consolidamento processuale. 
La regola di base è quella che assegna alle imprese del gruppo la facoltà di proporre un piano unitario o più piani collegati e interferenti, fermo restando che la richiesta deve provenire dalle imprese (in assenza della figura soggettiva “gruppo”) e che è sempre possibile proporre domande fra loro svincolate. La domanda di gruppo deve essere intesa come un fascio di domande connesse, con la conseguenza che le deliberazioni che gli organi sociali devono adottare, riguardano ciascuna singola entità; preferibilmente, ma non necessariamente, queste delibere dovrebbero includere la consapevolezza della confluenza della domanda singola in una domanda di gruppo, ma in ogni caso la decisione di partecipare alla domanda unitaria esclude che poi la singola entità possa opporsi all’omologazione. È possibile, poi, immaginare la contrattualizzazione degli accordi tra le entità del gruppo in funzione della redazione del piano unitario e ciò senza per questo dover importare la disciplina speciale degli accordi di sostegno nell’ambito dei gruppi bancari (art. 669-duodecies t.u.b.).
Se si coglie l’opportunità offerta dall’art. 284 CCII, qualora le imprese abbiano il COMI in circoscrizioni giudiziarie diverse, devono presentare la domanda dinanzi al tribunale competente individuato ai sensi dell’articolo 27 CCII (che può essere quello circondariale o distrettuale a seconda della dimensione del gruppo) in relazione al centro degli interessi principali della società o ente o persona fisica che, in base alla pubblicità prevista dall’articolo 2497-bis c.c., esercita l’attività di direzione e coordinamento oppure, in mancanza, dell’impresa che presenta la maggiore esposizione debitoria in base all’ultimo bilancio approvato. Se le domande proposte dalle più imprese con il piano unitario o collegato sono ammissibili, il tribunale, procedendo ai sensi dell’art. 47 CCII, nomina un unico giudice delegato e un unico commissario giudiziale per tutte le imprese del gruppo e dispone il deposito di un unico fondo per le spese di giustizia. Questa previsione esprime una forma di concentrazione processuale: allo stesso criterio si ispira la previsione in base alla quale con la sentenza di omologazione, il tribunale nomina un comitato dei creditori per ciascuna impresa del gruppo e, quando il concordato prevede la cessione dei beni, un unico liquidatore giudiziale per tutte le imprese. 
Di consolidamento procedimentale si può discorrere, invece, con riferimento alla fase delle votazioni e alla fase eventuale della risoluzione e dell’annullamento. Le votazioni sono organizzate in maniera contestuale e separata sulla proposta di ciascuna impresa e al voto sono ammessi i creditori di ogni entità del gruppo ma solo in relazione allo specifico loro debitore, previa eventuale loro collocazione in classi separate se ciò è voluto dalla legge o previsto nel piano. Tuttavia, il concordato di gruppo è approvato soltanto se tutte le proposte sono omologate e questo testimonia un consolidamento procedimentale, riprodotto anche nella parte in cui è possibile che la sussistenza di una causa di risoluzione o di annullamento di un concordato omologato rifluisca sugli altri concordati quando è significativamente compromessa l’attuazione del piano anche da parte delle altre imprese. In queste ipotesi, come si vede, gli effetti della sorte di una impresa sono ribaltati sulle sorti dell’intero procedimento di gruppo, cosa che non accadrebbe se le regole fossero ispirate alla semplice concentrazione processuale. In ordine alla votazione va rilevato che oltre alle cause ostative previste per l’espressione del voto nell’art. 109, sono escluse dal voto le imprese del gruppo (dunque anche se non ricorrono le condizioni dell’art. 109) titolari di crediti nei confronti dell’impresa ammessa alla procedura.
Il consolidamento processuale è esplicitato per l’approvazione e per gli eventi successivi all’omologazione mentre non è espressamente previsto, proprio, per il giudizio di omologazione, sì che v’è da chiedersi cosa accada quando una proposta non sia omologabile al cospetto delle altre delle diverse imprese del gruppo. La risposta potrebbe essere flessibile perché potrebbe dipendere da come sono formulate le domande connesse. Se la domanda è impostata in modo da far salve le proposte di alcune imprese, è possibile in sede di omologazione non demolire tutte le procedure; tuttavia, in questo caso, verrebbero ad essere omologati concordati “monadi” e verrebbero così a eclissarsi gli effetti delle operazioni infragruppo. In tale proiezione, è forse preferibile che l’omologazione debba essere unitaria. In tale caso è indubbio che occorra l’omologazione di tutte le proposte e non solo della maggioranza di esse.
Pur in assenza di un richiamo espresso deve ritenersi consentito che vi sia un unico ricorso anche ai sensi dell’art. 44 CCII, ed il tribunale dovrà assegnare il termine tenuto conto delle esigenze di protezione dei creditori di tutte le imprese. 
Le misure protettive si applicano in conseguenza della richiesta che ne fa il debitore nel ricorso e quindi non si può escludere che alcune imprese siano sprovviste di misure protettive.
33 . L’autonomia delle masse
La facoltà attribuita dalla legge alle imprese del gruppo pertiene alla presentazione di un piano unitario o di piani interferenti. Pertanto, non è revocabile in dubbio che la proposta debba, invece, essere formulata distintamente per ogni singola impresa; la proposta è rivolta, solo, ai creditori dell’impresa e non ai creditori del gruppo e ciò tenuto conto della conferma del dogma per cui resta ferma l’autonomia delle rispettive masse attive e passive: non si può, dunque, postulare che vi sia il riconoscimento del consolidamento sostanziale: ad esempio, le partite infragruppo non vengono elise ma neutralizzate ai fini del voto. Ciò che può essere unitario o collegato è il piano, ovverosia la strategia delle operazioni che le imprese intendono realizzare al fine di meglio tutelare i creditori. Parimenti, le informazioni sulla struttura del gruppo sono comuni e devono consentire agli organi della procedura ed ai creditori di avere una informazione più dettagliata possibile 
La domanda di gruppo è ammissibile (non è solo un obiettivo come accade nella liquidazione giudiziale) quando contiene l’illustrazione delle ragioni di maggiore convenienza, in funzione del migliore soddisfacimento dei creditori delle singole imprese, della scelta di presentare (i) un piano unitario ovvero (ii) piani reciprocamente collegati e interferenti invece di un piano autonomo per ciascuna impresa. Un piano di gruppo, nelle sue due variabili, è certamente un piano più complesso che presuppone la realizzazione di una serie di operazioni che, astrattamente, potrebbero favorire alcune società, alcuni creditori e alcuni soci in luogo di altri; occorre, pertanto, molta prudenza nel dare il via libera e a tal fine è ragionevole che la legge abbia voluto pretendere che il risultato per i creditori sia migliore di quello conseguibile con le domande separate.
Abbiamo visto che il legislatore in tema di concordato preventivo ha convertito la clausola del “miglior soddisfacimento dei creditori” nella clausola della “assenza di pregiudizio”, mentre in tema di gruppi è rimasta la prima locuzione e non ci pare si tratti di una dimenticanza o di un errore. La clausola dell’assenza di pregiudizio va rapportata alla comparazione tra concordato preventivo e liquidazione giudiziale; la clausola del miglior soddisfacimento dei creditori va rapportata alla comparazione tra proposta dell’impresa inserita nel gruppo e proposta svincolata della singola impresa (pur se tale comparazione risulta disagevole perché la proposta della società monade non potrà che essere virtuale). Il concordato di gruppo, cioè, può essere omologato se non arreca pregiudizio ai creditori e se offre condizioni migliori ai creditori; tale conclusione non deve apparire penalizzante o disincentivante, posto che il concordato di gruppo consente di realizzare sinergie, operazioni e valutazioni che altrimenti non sarebbero possibili. 
Difatti, se è vero che i creditori devono trovare un soddisfacimento migliore, è altrettanto vero che il beneficio stimato per i creditori di ciascuna impresa del gruppo, può dipendere dalla sussistenza di vantaggi compensativi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo. Va, però, verificato se il beneficio possa essere quello complessivo, come accadrebbe se un creditore fosse trattato peggio in una proposta (rispetto all’offerta contenuta in un concordato singolo) e meglio in altra proposta, con un risultato totale migliore. La risposta ideale è quella affermativa se si nega che vi possano essere delle omologazioni indipendenti fra loro. Pertanto, i vantaggi compensativi possono essere valutati nel contesto complessivo e possono concretarsi anche in vantaggi, sempre misurabili economicamente (affinché siano comparabili), ma anche indiretti, come l’utilità di evitare una revocatoria aggravata; questi vantaggi possono essere conseguiti non necessariamente contestualmente e in modo rigidamente corrispettivo purché entro il c.d. “arco di piano”.
Occorre chiedersi se le proposte concorrenti (art. 90 CCII) siano praticabili nell’ambito di un piano di gruppo. La risposta dovrebbe essere negativa rispetto alle singole entità del gruppo, ma positiva se un terzo intendesse avanzare una proposta, parimenti, di gruppo; certo, si crea il problema della individuazione della soglia rilevante del 10% dei crediti (che andrebbe computata sull’ammontare dei crediti di tutte le imprese coinvolte nel concordato di gruppo) nonché quello dell’attribuzione della direzione unitaria, ma anche questa criticità potrebbe essere superata volta che il nostro sistema legge la direzione unitaria dal punto di vista della direzione di fatto, senza eccessi di formalità, sull’assetto partecipativo. 
34 . I piani di gruppo
Le sinergie di gruppo sono articolate. I piani concordatari (unitari o collegati) possono essere tutti del medesimo tipo (liquidatori o in continuità) o di tipi distinti, nel qual caso prevalgono le regole del concordato in continuità (art. 84 CCII). Nelle disposizioni sul concordato, è stato eliso il criterio aritmetico di prevalenza, posto che il regime di continuità si preferisce anche se le risorse non sono in prevalenza ricavate dalla prosecuzione dell’attività; criterio che, al contrario, ritroviamo nell’art. 285 CCII quando dal confronto tra i flussi complessivi derivanti dalla continuazione dell’attività con i flussi complessivi derivanti dalla liquidazione, risulta che i creditori delle imprese del gruppo sono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta. Anche in questo caso si può pensare ad una aporia e tuttavia la giustificazione non è impraticabile: se la valutazione viene fatta a livello di gruppo – così si ricava dalla locuzione “flussi complessivi” – è ragionevole che la disciplina di favore prevista per il concordato in continuità (diretta e indiretta)  trovi applicazione solo quando dal piano unitario (o collegato) emerge che i valori espressi dalla continuità sono superiori a quelli ricavabili dalla liquidazione e non si corrano i maggiori rischi che normalmente sono connessi alla prosecuzione dell’attività, in luogo della statica liquidazione; infatti, diversamente opinando, vi sarebbe il rischio di applicare il criterio di continuità (stando all’art. 84 CCII) anche quando di una miriade di imprese, una soltanto sia destinata a vedere proseguita l’attività. Se il piano è qualificato in continuità il ceto dei creditori chirografari delle imprese per cui si prevede il concordato liquidatorio perdono il diritto al 20% come percentuale minima di soddisfacimento e tutti i creditori perdono il diritto al quid pluris del 10%.
Il vantaggio competitivo del concordato di gruppo (tale da superare la condizione del miglior soddisfacimento) sta nel fatto che il piano di gruppo può prevedere operazioni contrattuali e riorganizzative, inclusi i trasferimenti di risorse infragruppo, purché un professionista indipendente attesti che dette operazioni sono necessarie ai fini della continuità aziendale per le imprese per le quali essa è prevista nel piano e coerenti con l’obiettivo del miglior soddisfacimento dei creditori di tutte le imprese del gruppo tenuto conto dei vantaggi compensativi derivanti alle singole imprese. La disposizione non è di immediata lettura e va scomposta nei suoi capisaldi.
(i) Nel piano possono essere previste operazioni di riorganizzazione del gruppo (dal punto di vista industriale), operazioni societarie straordinarie (fusioni e scissioni), operazioni di conferimento, operazioni che incidono sulla struttura finanziaria delle società (aumenti di capitale). Tutte le operazioni del piano possono essere contestate solo nel contesto dell’opposizione all’omologazione (art. 116 CCII).
(ii) Il piano di gruppo può stabilire trasferimenti di risorse infragruppo che, però, non devono alterare il principio di separatezza tra masse attive e passive. Questi trasferimenti possono avvenire sia a titolo di finanziamenti infragruppo (con possibilità di applicazione degli artt. 99, 101 e 102 CCII), sia a titolo di attribuzione ai creditori di imprese terze (purché all’interno del gruppo), come potrebbe accadere quando i flussi eccedenti quelli da destinare ai creditori e derivanti dalla prosecuzione dell’attività vengano assegnati ai creditori di altre imprese e non ai soci: questo dovrebbe risultare possibile in virtù del recepimento della relative priority rule sul valore realizzato in eccedenza rispetto a quanto ricavabile dalla liquidazione. Si aggiunga che i trasferimenti di ricchezza sono espressione di un favor verso il gruppo ma nei limiti dell’assenza (complessiva) di pregiudizio.
Le condizioni perché queste operazioni siano legittime sono costituite dalla necessità di acquisire una specifica attestazione che certifichi la loro funzionalità (i) alla continuità aziendale per le imprese per le quali essa è prevista nel piano (ii) in coerenza con l’obiettivo del miglior soddisfacimento dei creditori di tutte le imprese del gruppo anche tenuti in conto i vantaggi compensativi derivanti alle singole imprese. Queste operazioni, però, devono, altresì, essere allineate alle condizioni di ammissibilità del concordato (art. 47 CCII) e di omologabilità (art. 112 CCII). I trasferimenti “protetti” non sono ammessi nel concordato liquidatorio perché la liquidazione dei patrimoni reclama il pieno rispetto della garanzia patrimoniale di cui all’art. 2740 c.c.
35 . La tutela nei piani di gruppo
La complessità di piani unitari e collegati può rappresentare un ostacolo ad una chiara percezione delle proposte; a tal fine, la legge offre tutela giurisdizionale quando, in assenza di una effettiva continuità prevalente, le operazioni straordinarie connesse al piano risultano pregiudizievoli (art. 285 CCII). Difatti, la contestazione sulle operazioni è attribuita ai creditori dissenzienti appartenenti a una classe dissenziente o, nel caso di mancata formazione delle classi, dai creditori dissenzienti che rappresentano almeno il venti per cento dei crediti ammessi al voto con riguardo ad una singola impresa, solo attraverso l’opposizione all’omologazione del concordato di gruppo. Nonostante l’opposizione il tribunale omologa il concordato quando ritiene, sulla base di una valutazione complessiva del piano o dei piani collegati e tenuto conto dei vantaggi compensativi derivanti alle singole imprese del gruppo, che i creditori possano essere soddisfatti in misura non inferiore a quanto ricaverebbero dalla liquidazione giudiziale della singola impresa: viene, così, effettuata una sorta di ‘prova di resistenza’. Chiara è la volontà di preferire la soluzione alla crisi di gruppo rispetto alla soluzione della crisi delle singole imprese. Questa forma di tutela endoconcorsuale (cioè veicolata nella sola forma dell’opposizione all’omologazione) non può assorbire i diritti di impugnativa che spettano ai terzi, in particolare ai creditori delle società del gruppo in bonis, per i quali resistono i rimedi eleggibili in via ordinaria. Resta da valutare se i creditori dissenzienti dell’impresa in concordato di gruppo possano, in alternativa all’opposizione all’omologazione, proporre un’azione di risarcimento del danno; poiché l’intero telaio del codice della crisi è improntato a favorire le soluzioni pattizie, nel momento in cui si vogliono assorbire nel giudizio di omologazione le contestazioni sulle operazioni di gruppo, è probabilmente ragionevole che non vi sia neppure uno spazio residuo per la tutela risarcitoria, anche al lume del fatto che se si formasse un credito questo dovrebbe poi essere immesso tra le passività, con il risultato di provocare un circuito vizioso perché andrebbero, poi, modificate le valutazioni sulla recovery dei creditori.
Come si è precisato più volte, il codice della crisi non espunge dai protagonisti dello scenario di crisi i soci delle società di capitali. L’opposizione all’omologazione del concordato di gruppo diviene anche l’unica sede nella quale le operazioni del piano di gruppo possono essere contestate dai soci (sempre che siano i soci delle società coinvolte nel concordato di gruppo, posto che altrimenti subirebbero una lesione ingiustificata del loro diritto, compresso in un procedimento di ristrutturazione cui la società cui appartengono resta estranea) quando vogliono lamentare il pregiudizio arrecato alla redditività e al valore della partecipazione sociale: ciò potrebbe accadere se le risorse potenzialmente a loro attribuibili venissero distratte – legittimamente in base alle operazioni previste nel piano – a favore di qualche impresa del gruppo, determinando una perdita di valore dell’impresa che eroga le risorse. Tuttavia, se si esclude la sussistenza del predetto pregiudizio in considerazione dei vantaggi compensativi derivanti alle singole imprese dal piano di gruppo il tribunale omologa, in ogni caso, il concordato. Anche nel caso dei soci, la tutela oppositoria appare assorbire quella risarcitoria. 
36 . La domanda di accesso
La domanda di accesso ad uno strumento regolativo della crisi può avvenire con il deposito di una proposta di concordato o di una proposta di piano di ristrutturazione, oppure con il deposito di un ricorso per l’omologazione di un accordo di ristrutturazione. In alternativa, il debitore può presentare una domanda di accesso con riserva al procedimento unitario (art. 44 CCII) che benché, possa costituire la via elettiva per il debitore, tratteremo successivamente per ordine logico.
I documenti indicati nell’art. 39 CCII sono quelli che possiamo definire standard, ma poi a seconda dello strumento prescelto, il debitore dovrà fornire ben più ampia documentazione. In questo caso, l’individuazione del set documentale si ritrova non già nella sequenza delle norme sul procedimento unitario, ma nelle disposizioni in tema di accordi di ristrutturazione (art. 57 e 56 CCII), di piano di ristrutturazione (art. 64-bis CCII) e di concordato preventivo (art. 87 CCII). 
Rinviando nel dettaglio alle specifiche partizioni del Volume (Capp. X, XI e XII), giova qui precisare che: (i) con il ricorso per omologazione degli accordi il debitore deve depositare il piano, gli accordi con i creditori e l’attestazione del professionista; (ii) con la domanda di concordato o di omologazione del piano di ristrutturazione il debitore deve depositare la proposta, il piano e l’attestazione. 
Con la presentazione e la pubblicazione si producono effetti assai rilevanti. 
Più articolati sono gli effetti che conseguono al deposito della domanda di concordato preventivo. Il deposito della domanda, infatti, comporta una limitazione dei poteri di gestione dell’impresa (art. 46 CCII); tale limitazione (definita, usualmente, come spossessamento attenuato) concerne gli atti urgenti di straordinaria amministrazione che assumono efficacia solo previa autorizzazione del tribunale e ciò nel periodo compreso tra il deposito della domanda (anche con riserva) e il decreto con cui il tribunale dispone l’apertura della procedura ai sensi dell’art. 47 CCII. In particolare, i creditori non possono acquisire diritti di prelazione con efficacia rispetto ai creditori concorrenti.
La limitazione nella gestione opera anche dopo l’apertura del concordato (art. 94 CCII) perché il debitore conserva l'amministrazione dei suoi beni e l'esercizio dell'impresa, sotto la vigilanza del commissario giudiziale ma gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione (anche non urgenti) devono essere autorizzati dal giudice delegato quando il loro compimento è funzionale ad assicurare ai creditori il miglior soddisfacimento.
La domanda di autorizzazione contiene idonee informazioni sul contenuto del piano. Il tribunale può assumere ulteriori informazioni, anche da terzi, e acquisisce il parere del commissario giudiziale, se nominato.
La domanda produce un effetto protettivo automatico che prescinde dalla richiesta del debitore; infatti, le ipoteche giudiziali iscritte nei novanta giorni che precedono la data della pubblicazione nel registro delle imprese della domanda di accesso vengono di fatto neutralizzate perché sono inefficaci rispetto ai creditori anteriori; si tratta di una misura protettiva sui generis perché (i) impedisce che i creditori conquistino una prelazione contro la volontà del debitore e perché (ii) non è soggetta a conferma, revoca o modifica; tuttavia una parte dello statuto delle misure protettive si applica perché nel caso di revoca della protezione, le ipoteche iscritte restano inefficaci, con la conseguenza che l’effetto di rimozione opera ex nunc (art. 55, 7° comma, CCII).   
Dalla data del deposito della domanda e sino all’omologazione del concordato, non si applicano gli artt. 2446, commi 2° e 3°, 2447, 2482-bis, commi 4°, 5° e 6°, e 2482-ter c.c. Nello stesso periodo non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli artt. 2484, numero 4, e 2545-duodecies c.c. (art. 89 CCII). Questo significa che durante il procedimento concordatario vengono neutralizzati gli obblighi di ricapitalizzazione della società con conseguente sterilizzazione dell’obbligo di porre la società in liquidazione
Un effetto assai importante riguarda i crediti di terzi sorti per effetto degli atti legalmente compiuti dal debitore che assumono il rango di crediti prededucibili (art. 46 CCII).
Le regole relative alla domanda di concordato (artt. 40 e 44 CCII) si applicano anche al piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione in virtù del rinvio contenuto nell’art. 64-bis CCII, mentre non si producono esattamente tutti gli effetti del concordato posto che in questo strumento l’imprenditore conserva la gestione dell’impresa anche per gli atti di straordinaria amministrazione.
37 . Gli effetti
Prima dell’avvento del codice della crisi la sola presentazione della domanda di concordato o di omologazione degli accordi di ristrutturazione generava l’effetto automatico ed immediato del divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari (art. 168 l.fall.). Sulla scia delle indicazioni unionali, si è dovuto prendere atto che la protezione del patrimonio del debitore non poteva più ssere automatica, né poteva durare per un tempo indefinito. Questa è la ragione per la quale il legislatore ha dovuto impiantare un sistema di protezione più complesso (cfr., il raccordo tra l’art. 40 e l’art. 54 CCII) per effetto del quale con la presentazione della domanda, (solo) se il debitore ne fa richiesta, si applicano – a far data dalla pubblicazione nel registro delle imprese - le misure protettive del divieto di inizio o prosecuzione delle azioni esecutive e cautelari e salvo conferma del giudice; pertanto, quando la domanda contiene la richiesta di misure protettive il conservatore del registro delle imprese, nell’eseguire l’iscrizione, ne fa espressa menzione (v., infra).
38 . La domanda con riserva
Sul presupposto che l’imprenditore spesso si trova a dover reagire alla situazione di crisi senza però essere pronto a presentare una domanda di concordato preventivo o una richiesta di omologazione degli accordi di ristrutturazione, nel 2012 il legislatore introdusse una figura “eretica” che ha avuto uno straordinario successo nella prassi e che, al contempo, ha generato moltissime polemiche e crisi di rigetto per il tanto dibattuto tema dell’abuso dello strumento: parliamo di quello che è stato variamente etichettato come “concordato in bianco”, “pre-concordato”, “concordato prenotativo”, “concordato con riserva”. Tale figura, allineata ad un dichiarato favor concordatario (collocata nell’art. 161, 6° comma L. fall.), consentiva all’imprenditore di depositare il ricorso contenente la domanda di concordato preventivo, riservandosi di presentare il piano, la proposta e la documentazione in un termine fissato dal giudice. Poiché la predisposizione del piano e della proposta potevano richiedere del tempo, e in questo tempo il patrimonio del debitore avrebbe potuto subire aggressioni da parte dei creditori, si erano anticipati la protezione del patrimonio e la produzione degli effetti del concordato (segnatamente gli effetti di cui agli artt. 168 e 169 L. fall.) al momento della pubblicazione/presentazione del ricorso nel registro delle imprese. 
Si era così fissata la scissione fra il profilo volitivo (la domanda di apertura del concordato), quello propositivo (la proposta) e quello argomentativo (il piano). 
Orbene, nonostante le plurime criticità e la diffusa ostilità all’istituto, nel codice ritroviamo, sebbene con non marginali distinguo, una figura che possiamo reputare l’erede del concordato in bianco. L’art. 44 CCII, infatti, prevede che “il debitore può presentare la domanda di cui all’articolo 40 con la documentazione prevista dall’articolo 39, comma 3, riservandosi di presentare la proposta, il piano e gli accordi”. La prima notazione riguarda il fatto che si deve abbandonare la locuzione “concordato in bianco” (ed equipollenti) e sostituirla con “domanda di accesso al procedimento unitario con riserva” (o, se si vuole, più semplicemente “domanda con riserva”); da un lato perché con la domanda si avvia un procedimento unitario, dall’altro lato perché la norma fa chiaramente riferimento, sin dall’inizio, alla alternativa tra concordato (proposta) e accordi di ristrutturazione (accordi) e piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione. 
La domanda con riserva va depositata unitamente ad un set documentale più snello: (i) i bilanci relativi agli ultimi tre esercizi o, per le imprese non soggette all’obbligo di redazione del bilancio, le dichiarazioni dei redditi e le dichiarazioni IRAP concernenti i tre esercizi precedenti, (ii) l'elenco nominativo dei creditori con l'indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione. Gli altri documenti indicati nell’art. 39 CCII debbono essere depositati quando il debitore presenta la proposta di concordato o il ricorso per omologa degli accordi.
La domanda con riserva potrebbe limitarsi a contenere la richiesta di apertura del procedimento con la concessione del termine di cui all’art. 44 1° comma CCII; tuttavia, la presentazione di una domanda maggiormente articolata è indispensabile quando il debitore, volendo avvalersi delle nuove opportunità concesse dalla legge, chiede l’autorizzazione per il compimento di una serie di atti rilevanti: basti pensare alle autorizzazioni al compimento degli atti di straordinaria amministrazione, all’autorizzazione a contrarre finanziamenti, all’autorizzazione alla sospensione dei rapporti pendenti, all’autorizzazione ad eseguire pagamenti a favore dei creditori concorsuali. In tutti questi casi, se il debitore vuole conseguire le opportunità che la legge gli riconosce dovrà allegare quale percorso intende intraprendere per regolare la crisi e ciò al fine di consentire al tribunale di misurare la coerenza tra richiesta formulata e programma di risoluzione della crisi.
La fase che si apre con il deposito e con la pubblicazione del ricorso è assai delicata: da una parte il debitore chiede la protezione del suo patrimonio senza avere ancora delineato ciò che davvero vorrà fare, ma dall’altra parte, in questa fase i creditori vedono paralizzate le loro azioni senza avere, ancora, percezione di quale sorte avrà il loro credito. Infine, il giudice è chiamato ad autorizzare atti di importante impatto sulle sorti dell’impresa senza conoscere il programma di regolazione della crisi. Tutto ciò spiega l’intensità dei controlli che il tribunale può imporre al debitore.
39 . Effetti della domanda con riserva
Dalla domanda con riserva germinano alcuni effetti, in parte equivalenti a quelli che conseguono alla domanda “piena”: (i) il debitore gestisce l’impresa ma se vuole compiere atti urgenti di straordinaria amministrazione deve chiedere l’autorizzazione al giudice; (ii) gli effetti protettivi di cui all’art. 54 CCII si producono dalla pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese se il debitore ne ha fatto domanda. A seguito della domanda il debitore può chiedere la sospensione dei contratti pendenti, può chiedere di essere autorizzato a contrarre finanziamenti prededucibili e ad eseguire pagamenti a favore di creditori anteriori strategici quando si prevede la redazione di un piano di continuità. Vi sono, però, taluni effetti di rilievo strategico in un programma di regolazione della crisi che le norme non riconnettono al deposito della domanda con riserva: non è prevista, infatti, la neutralizzazione degli obblighi di ricapitalizzazione e la sterilizzazione dell’obbligo di scioglimento della società a seguito della perdita del capitale sociale. Tali regole sono evocate nella composizione negoziata, negli accordi di ristrutturazione e nel concordato preventivo, talché appare singolare che un effetto così importante non si produca sin dalla domanda con riserva. Tuttavia, poiché queste regole derogatorie impattano direttamente sugli obblighi degli amministratori, appare arduo optare per una interpretazione analogica e consentire che gli effetti di diritto societario si applichino anche alla domanda con riserva. Ed invece, la regola per cui le ipoteche giudiziali iscritte nei novanta giorni anteriori alla pubblicazione della domanda sul registro delle imprese sono inefficaci (art. 46 CCII) può essere estesa alla domanda con riserva perché nel 1° comma di tale disposizione c’è un rinvio all’art. 44 CCII e questo rinvio può ritenersi replicabile anche con riferimento alle fattispecie precisate nei commi successivi, tra le quali, appunto, quella dell’inefficacia delle ipoteche.
Tanto la sospensione degli obblighi societari, quanto l’inefficacia delle ipoteche possono essere tuttavia paragonate a misure protettive sui generis e in questo senso il debitore può chiedere che siano disposte ai sensi dell’art. 54, 2° comma, terzo periodo CCII, fermo restando che l’effetto non potrà essere automatico, presupponendo la decisione del giudice.
La domanda con riserva neppure produce effetti sui crediti pregressi (fra i quali il blocco degli interessi, la compensazione, le obbligazioni solidali) visto che l’art. 96 CCII li ricollega al deposito della domanda di accesso. In questo caso, però, quella che appare come una lacuna (specie se confrontata con il regime normativo pregresso), tale davvero non è; se la domanda con riserva non è, più, strettamente correlata al concordato preventivo in quanto è una domanda di accesso ad un procedimento con riserva, è razionale che non si producano, sin da subito, effetti tipici del concordato (quelli di cui agli artt. 153-162 e 145 CCII), cioè effetti che nulla hanno a che vedere con gli accordi di ristrutturazione. 
40 . Procedimento pre-apertura
La domanda del debitore introduce un procedimento che è organizzato con il format di cui all’art. 41 CCII, quello dettato per la liquidazione giudiziale, ma considerato che prende avvio dalla iniziativa del debitore è logico che le regole debbano essere adattate principiando dal tema del contraddittorio. 
Quando è presentata la domanda di concordato preventivo il tribunale procede all’esame del ricorso (domanda, piano, proposta, attestazione) sulla base della documentazione depositata (art. 39 CCII) e può stabilire sia l’audizione del debitore, sia l’assunzione di informazioni anche tramite il coinvolgimento dei creditori; quando la domanda di concordato è stata preceduta dalla domanda con riserva, il tribunale acquisisce il parere del commissario giudiziale (art. 47 CCII). Una volta formatosi il contraddittorio con il debitore e acquisiti tutti gli elementi di valutazione, il tribunale assume la decisione, se del caso preceduta dall’assegnazione di un termine (di quindici giorni) a favore del debitore perché possa apportare modifiche al piano e depositare nuovi documenti; la disposizione è riferita al piano, ma nel termine concesso può essere modificata la proposta, considerato che questa potrebbe essere rivista anche successivamente. 
Una volta raccolti tutti gli elementi istruttori per la decisione, il tribunale ha diverse alternative: (i) può dichiararsi incompetente (e trasmettere gli atti ad altro tribunale); (ii) ovvero può dichiarare la domanda inammissibile o, ancora, (iii) può disporre l’apertura della procedura di concordato preventivo (art. 47 CCII). 
Ciò presuppone un accertamento preliminare: (a) sulla competenza per territorio; (b) sulla circostanza che l’impresa si trovi in stato di crisi o di insolvenza; (c) sul fatto che l’imprenditore sia legittimato a presentare il ricorso e (d) che siano stati depositati i documenti; (e) il tribunale verifica il deposito della relazione di un professionista munito dei requisiti di cui all’art. 2 lett. o) CCII e che dalla relazione risulti che i dati aziendali sono veridici e che il piano è fattibile. 
Sennonché il giudizio preliminare cui è chiamato il tribunale è ancor più articolato perché la valutazione in ordine all’apertura della procedura dipende dalla tipologia del piano di concordato.
Se il piano è liquidatorio il tribunale valuta l’ammissibilità̀ della proposta e la fattibilità del piano, intesa come non manifesta inattitudine del medesimo a raggiungere gli obiettivi prefissati; pertanto, dovrà valutare ai fini del giudizio di ammissibilità che la proposta assicuri il pagamento di almeno il 20% dell'ammontare dei crediti chirografari e che il debitore apporti almeno il 10% in più delle risorse disponibili (art. 84 CCII); ai fini del giudizio di fattibilità del piano, tenuto conto (ma non in via esclusiva) dell’attestazione del professionista, dovrà verificare che il piano sia coerente con la proposta e che non sia manifestamente irrealizzabile. Di poi, una valutazione più approfondita spetterà ai creditori che potranno approvare o rifiutare la proposta valutandone, anche, la fattibilità o non fattibilità.
Quando il piano si fonda sulla continuità̀ aziendale, il giudizio si arresta alla ritualità̀ della proposta, da intendersi come controllo di mera legittimità e ciò perché, in aderenza alle prescrizioni della Direttiva 2019/1023, il legislatore ha voluto privilegiare le proposte di concordato che, almeno in astratto, conservano il valore dell’impresa. Tuttavia, al fine di evitare l’apertura di procedimenti velleitari, sebbene non si faccia luogo ad un giudizio di fattibilità del piano (particolarmente complesso stante la volatilità degli scenari economici), la domanda è comunque inammissibile se il piano è manifestamente inidoneo alla soddisfazione dei creditori, come proposta dal debitore, e alla conservazione dei valori aziendali. I due pilastri del concordato devono, da subito, rivelarsi non irrealizzabili.
41 . La decisione del tribunale
Quando sussistono tutte le condizioni ora precisate, il tribunale, con decreto, adotta le necessarie misure per l’organizzazione del procedimento, implicitamente dichiarando aperta la procedura di concordato preventivo.  
Il decreto che apre la procedura non è soggetto a reclamo e ciò lo si ricava dalla previsione secondo la quale è, invece, reclamabile il decreto di inammissibilità (art. 47, 4° e 5° comma, CCII).
Il decreto contiene prescrizioni di carattere organizzativo: (i) il tribunale nomina il giudice delegato e il commissario giudiziale (eventualmente confermando quello nominato ai sensi dell’art. 44 CCII); (ii) fissa i termini per gli adempimenti relativi alla fase dell’approvazione e in particolare per l’espressione telematica del diritto di voto (artt. 107-109 CCII); (iii) stabilisce l’ammontare ed il termine (non superiore a quindici giorni) per il deposito delle somme necessarie per le spese di procedura, a pena di improcedibilità. Il decreto è immediatamente pubblicato nel registro delle imprese.
Se non ricorrono le condizioni di cui sopra, il tribunale pronuncia il decreto di inammissibilità, previa instaurazione del contraddittorio con i creditori e con il debitore (anche in forme semplificate, senza necessità di apposita udienza); laddove risultino pendenti richieste dei creditori, del pubblico ministero o degli organi di controllo il tribunale pronuncia sentenza di apertura della liquidazione giudiziale quando riscontra che l’impresa si trova in stato d’insolvenza.
Il decreto di inammissibilità è soggetto a reclamo dinanzi alla corte di appello entro trenta giorni dalla comunicazione; la corte di appello decide con le regole dei procedimenti in camera di consiglio, sentite le parti. Se accoglie il reclamo trasmette gli atti al tribunale perché provveda ai sensi dell’art. 47, 2° comma CCII. 
La decisione del giudice del reclamo non è impugnabile: se il decreto accoglie il reclamo le doglianze potranno essere proposte nel giudizio di omologazione; se il decreto respinge il reclamo, il provvedimento non è ricorribile per cassazione difettando il requisito della definitività, posto che l’art. 47 esplicita che la domanda di concordato può essere riproposta. 
Quando la domanda è inammissibile e il tribunale dichiara con sentenza la liquidazione giudiziale il mezzo di impugnazione è unicamente il reclamo di cui all’art. 51 CCII. 
La domanda con riserva (art. 44 CCII) è esaminata dal tribunale che, salvi casi di inammissibilità (correlati a difetto di documentazione o a manifesta illegittimità), assegna al debitore un termine compreso tra trenta e sessanta giorni - prorogabile su istanza dello stesso in presenza di giustificati motivi e in assenza di domande per l’apertura della liquidazione giudiziale - entro il quale il debitore deve presentare la domanda di concordato o di piano di ristrutturazione (corredata da piano, proposta e documenti) o la domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione. 
Il tribunale con il decreto (i) nomina un commissario giudiziale, disponendo che questi riferisca immediatamente al tribunale su ogni atto di frode ai creditori non dichiarato nella domanda ovvero su ogni circostanza o condotta del debitore tali da pregiudicare una soluzione efficace della crisi specificando se il debitore stia adoperandosi per presentare il piano e la proposta; (ii) dispone gli obblighi informativi periodici, anche relativi alla gestione finanziaria dell’impresa e all’attività  compiuta ai fini della predisposizione della proposta e del piano, che il debitore deve assolvere, con periodicità almeno mensile e sotto la vigilanza del commissario giudiziale; (iii) dispone che il debitore depositi una relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria che, entro il giorno successivo, è iscritta nel registro delle imprese su richiesta del cancelliere; (iv) ordina al debitore il versamento, entro un termine perentorio non superiore a dieci giorni, di una somma per le spese della procedura.
Alla scadenza del termine fissato, se il debitore non deposita il piano, la proposta e la documentazione (o il piano di cui all’art. 64-bis o il ricorso di cui all’art. 57 CCII), il tribunale deve, con decreto, dar atto che sono venuti meno gli effetti della domanda, stabilire che ne sia data informazione ai terzi e disporre l’iscrizione nel registro delle imprese del provvedimento in modo che tale decisione si saldi con l’iscrizione della domanda; in presenza di ricorsi ex art. 37 CCII, il tribunale dichiara la liquidazione giudiziale.
Il procedimento si arresta per il mancato deposito delle spese di procedura, quando vi è violazione degli obblighi informativi, quando sono accertati atti o fatti di frode; in questi casi il tribunale apre il contraddittorio tra le parti, senza formalità, e ravvisati questi fatti, revoca il decreto di fissazione del termine e pronuncia la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale se vi è istanza dei soggetti legittimati (art. 44 CCII).
42 . Il giudizio di omologazione
L’art. 48 CCII contiene la disciplina dei giudizi di omologazione in virtù della idealità del procedimento unitario collocato topograficamente in una partizione autonoma: tuttavia, ciascun comma è dedicato all’omologazione dei diversi strumenti di regolazione e quindi si procederà alla disamina di ciascun diverso modello processuale correlato ai tre strumenti soggetti ad omologazione.
Una volta che una proposta concordataria è stata approvata dai creditori (art. 109 CCII), l’assetto negoziale del concordato si esaurisce ma da solo non è sufficiente a governare il procedimento in quanto è necessario, perché si producano gli effetti del patto concordatario, che intervenga la sentenza di omologazione del tribunale.
L’efficacia del negozio si propala verso (i) i creditori dissenzienti e quindi applicando la regola di maggioranza, verso (ii) i creditori estranei e verso (iii) i terzi solo quando la proposta è omologata dal tribunale.
Il provvedimento di omologazione serve, dunque, a dare piena efficacia ad un contratto; l’omologazione costituisce la condicio iuris dell’accordo concordatario perché questo possa dispiegare pienamente i propri effetti. 
Se si guarda al concordato dall’ottica del diritto civile e si pensa al paradigma normativo secondo il quale il contratto ha effetto di legge fra le parti e, normalmente, non si riflette verso i terzi, si comprende che l’adesione alla proposta formulata dal debitore da parte di ciascun creditore dovrebbe impegnare il solo creditore aderente. Anche considerando la circostanza che il legislatore ha ritenuto di applicare il principio di maggioranza al concordato, in virtù della presenza di una collettività dei creditori, la scelta di rendere efficace il concordato solo con l’omologazione del tribunale non è per nulla irrazionale, specie ora che il principio di maggioranza non è più solido come un tempo. 
L’attribuzione al giudice del compito di omologare (o non omologare) il concordato è un modo per consentire che si eserciti un controllo sul procedimento di formazione del vincolo negoziale. 
Nel caso del concordato (e, di riflesso nel piano ex art. 64-bis CCII) si è preferito prevedere che il provvedimento di omologazione giunga al termine di un procedimento all’interno del quale tutte le parti coinvolte ed anche i terzi interessati sono poste nelle condizioni di svolgere le loro difese: ciò si traduce nella possibilità di contestare che il procedimento di concordato e la sua approvazione, in particolare, siano conformi alla legge e all’interesse dei creditori. 
Il procedimento (giudizio) di omologazione è necessario perché (i) il consenso si forma durante la procedura, (ii) la regolazione della crisi d’impresa è un fatto che interessa una comunità di soggetti economici, (iii) occorre trovare un contenitore nel quale convogliare tutte le questioni che possono essere sollevate in ordine alla legittimità del procedimento e alla vantaggiosità della proposta; tali questioni possono entrare nel processo attraverso la proposizione di opposizioni.
Il ‘contratto di concordato’ non è il contratto sulla procedura ma è il contratto su come deve essere regolata la crisi, quello che possiamo definire patto di concordato. 
La domanda di concordato resta affidata al monopolio del debitore ed è solo costui che ha il potere di chiedere che la regolazione della crisi della sua impresa avvenga secondo le regole del concorso concordatario; in concreto perché la sua richiesta possa essere accolta deve essere in grado di proporre ai creditori un patto di concordato accettabile. 
Le regole disciplinari del concordato si applicano come effetto della domanda giudiziale
Tuttavia, mentre il patto di concordato fra debitore e creditori potrebbe concludersi al di fuori del procedimento se tutti i creditori fossero consenzienti (e quindi potrebbe non essere decisiva la blindatura dell’omologazione dalla quale derivano gli effetti di cui all’art. 117 CCII), giammai analogo patto di concordato potrebbe efficacemente concludersi fra il terzo e i creditori perché ha per oggetto il patrimonio del debitore. In questo caso, l’effettività della proposta del terzo riceve la propria forza dalla sentenza di omologazione. Appare, quindi, evidente quale sia la rilevanza della sentenza che contiene una doppia imposizione: quella verso i creditori dissenzienti e quella verso il debitore. 
43 . L’oggetto
Se la causa del concordato preventivo è la regolazione della crisi dell’imprenditore e se il procedimento di concordato è lo strumento per comporre con i creditori quella crisi, l'oggetto del giudizio di omologazione è rappresentato dall’accertamento sulla domanda, con la quale si chiede che il giudice verifichi che il conflitto che è sorto fra un imprenditore-debitore e i suoi creditori è stato composto con un accordo; un accordo che ha rispettato taluni limiti legali e nel quale trovano applicazione le regole concorsuali. Quando si è accertata la sussistenza dei requisiti che giustificano l’apertura della liquidazione giudiziale, ciò che ne segue è un procedimento esecutivo; quando si accertano i presupposti del concordato, quella che ne deriva è una composizione fondata basilarmente sui principi della autonomia privata. L’oggetto del processo è parzialmente coincidente nella parte in cui si vuole che la crisi trovi una sistemazione, ma è anche in parte diverso là dove le regole da applicare sono differenti perché i due modelli di concorso non sono equipollenti.
Un punto è certo: la natura e l’oggetto del procedimento non cambiano a seconda che siano proposte o meno opposizioni: con le opposizioni non si trasforma un procedimento di volontaria giurisdizione in un processo contenzioso, non si muta l’oggetto del giudizio, ma semplicemente si amplia la cognizione del giudice perché si introducono fatti che altrimenti il tribunale non avrebbe modo di conoscere: semplicemente, il giudice, se vi sono opposizioni, dovrà svolgere qualche accertamento in più.
Altro punto certo è la funzione del giudizio di omologazione che con la sentenza di omologazione consente che tutti gli effetti dell’accordo stipulato fra il debitore e la maggioranza dei creditori si estendano ai terzi: si pensi agli effetti rispetto ai creditori anteriori (art. 117 CCII), agli effetti sull’esenzione dalle azioni revocatorie (art. 166, 3° comma, lett. e), agli effetti ai fini dell’esimente dal reato di bancarotta (art. 324 CCII). 
Meno evidente è la tipologia del giudizio. Siamo in presenza di un modello lasciato alla discrezionalità del giudice, ma in una cornice regolatoria più definita rispetto a quella tipica del procedimento camerale del codice di rito, dato che il legislatore ha previsto termini e modi del processo, tratteggiandone alcuni tempi e alcune forme. Che i tratti distintivi siano quelli dei procedimenti in camera di consiglio si ricava, sul piano formale, dal richiamo all’“udienza in camera di consiglio” contenuto nell’art. 48 comma 1° CCII: ma ci si può chiedere se, a dispetto di questa indicazione letterale, non si debba qualificare il procedimento come un processo a cognizione piena, ma semplificato, al modo di quanto era stato ritenuto, con riferimento all’art. 15 l.fall., per l’istruttoria pre-fallimentare. 
L’opzione per il modello camerale, infatti, potrebbe rilevare per dimostrare che non sono in discussione diritti soggettivi e che il provvedimento conclusivo – l’omologazione assunta con sentenza – non ha natura decisoria. Tuttavia, poiché è noto che il procedimento in camera di consiglio è divenuto ormai, per la giurisprudenza costante del giudice di legittimità, un contenitore adatto ad includere anche liti su diritti, la scelta del legislatore può essere considerata neutra. E se così è, possiamo tenerci lontani da una classificazione motivata da prese di posizione preconcette, rimanere aderenti all’indicazione normativa e mantenere il giudizio di omologazione tra quelli camerali: possiamo considerare tale scelta ragionevolmente coerente con l’impostazione sistematica del concordato, del piano e degli accordi, seppure non priva di criticità sul piano applicativo, dal momento che il modello di procedimento non è né quello generale del codice di rito (artt. 737 segg. c.p.c.), né quello camerale ma arricchito previsto dall’art. 124 CCII e richiamato per il concordato di liquidazione dall’art. 245 CCII.
Sennonché, il giudizio di omologazione del concordato, degli accordi e del piano di ristrutturazione continua a sfuggire, per un verso o per l’altro, alle categorie tradizionali del processo civile. 
Come enunciato, si può indagare sull’oggetto dando per condiviso che la causa del concordato preventivo sia la regolazione della crisi secondo le regole del concorso concordatario.  Il concordato è al servizio della sistemazione della crisi che ha investito un imprenditore e la sistemazione della crisi può avvenire, pur con ampia flessibilità, in base ad una serie di regole che disciplinano il concorso fra i creditori e che sono ben diverse rispetto agli accordi di ristrutturazione e al piano di ristrutturazione soggetto a omologazione, non fosse altro che per il fatto che solo nel concordato sono stabilite regole di distribuzione del valore (v., artt. 84 e 112 CCII). 
Ora, se è vero che la causa del concordato preventivo è la regolazione della crisi e che la procedura di concordato è lo strumento per comporre con i creditori quella crisi, cionondimeno non si dev’essere troppo condizionati, nel ricavare l’oggetto del giudizio di omologazione, dalla causa (e dall’oggetto) del procedimento di concordato. Poiché il giudizio di omologazione è servente rispetto alla procedura concordataria, della quale rappresenta soltanto un segmento, l’oggetto dell’uno ben può essere ricostruito senza eccessivi condizionamenti che derivino dalla seconda.  
Altri punti fermi. Oggetto del processo di concordato e oggetto del giudizio di omologazione non sono né la qualità di imprenditore commerciale non sotto-soglia del debitore, né lo stato di crisi o di insolvenza, né i diritti dei creditori. I primi due, al più, rappresentano i presupposti perché ci possa essere una procedura concordataria. 
Ciò di cui si discute nel giudizio di omologazione è se la crisi del debitore - crisi che come detto rappresenta un presupposto del procedimento - può essere composta col concordato o se deve essere risolta con la procedura di liquidazione giudiziale o comunque con una soluzione di carattere espropriativo. Formulata la questione in questi termini, si potrebbe dire che al fondo si tratta di porre il focus del processo nel controllo sull’esercizio di quello che può essere definito un potere processuale: il potere di chiedere al giudice di verificare che la crisi può essere regolata con la disciplina del sistema concorsuale-concordatario. In questa chiave, si tratterebbe in particolare di capire se oggetto del giudizio sia la conformazione di un potere, un diritto, o invece se si tratti semplicemente di attribuire efficacia a un accordo, senza che si possa ragionare in termini di oggetto del processo perché un vero e proprio oggetto del processo non c’è.
Il potere di chiedere (e dunque di ottenere) che la crisi sia regolata secondo la disciplina del concordato, sussiste quando si verificano una serie di circostanze che costituiscono i presupposti, o forse meglio, gli antecedenti logici perché quel potere sia riconosciuto. 
Ma l’oggetto del processo non si compendia in un diritto soggettivo potestativo, né in un potere di conformazione dell’altrui sfera giuridica, perché le modificazioni dei diritti di coloro che si trovano in posizione antagonista presuppongono che l’esercizio del potere intercetti il consenso della maggioranza di coloro che subiscono l’effetto. Il consenso che viene prestato dai creditori è un presupposto di legittimità del procedimento nonché un presupposto su cui il potere del debitore è fondato. 
Il giudizio di omologazione si inserisce nel procedimento unitario, e rappresenta, come un tempo, un segmento della procedura di concordato, ma oggi è retto, diversamente dal passato, dal medesimo ricorso che avvia la procedura concordataria. Ricorso che può reggere anche il procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale, anch’esso disciplinato dall’art. 40 CCII. È proprio da qui che dobbiamo partire: dal procedimento unitario, immaginandolo avviato da una domanda di apertura della liquidazione giudiziale. Con questo ricorso, il creditore chiede che il suo credito sia tutelato con le regole dell’espropriazione concorsuale; se nel procedimento si inserisce la domanda di concordato, il debitore chiede che i suoi debiti seguano le regole del concorso, ma vengano trattati in base alle pattuizioni negoziali che prevalgono su quelle del procedimento liquidatorio. 
Ciò implica che creditore e debitore da una parte (nella liquidazione giudiziale) e debitore e creditori dall’altra (nel concordato preventivo) si collochino comunque in posizione antagonista. La contrapposizione di interessi, infatti, è intrinseca nella situazione di dissesto (o di semplice crisi, ma non risolvibile con le sole ‘forze’ del debitore) e il fatto che costui possa, nel caso concreto, anche aderire al ricorso per la liquidazione giudiziale, o i creditori possano talora non essere interessati a proporre opposizione al concordato, non incide sulla valutazione di quale siano la natura e l’oggetto del processo.
Al fondo, nel più lato procedimento unitario, ci troviamo dinanzi ad un procedimento sui generis, nel quale la ‘domanda’ serve ad aprire un processo (come la rinuncia serve a chiuderlo) ma una volta che questo è stato aperto, il suo oggetto è la verifica di quella situazione di crisi/insolvenza la quale giustifica che il trattamento delle relazioni tra debitore e creditori e tra creditori sia disciplinato da regole di tutela collettiva e non solo individuale come accade nell’espropriazione forzata.
Al fine di giungere ad una conclusione razionale occorre, ancora, ricordare che il provvedimento che conclude il giudizio di omologazione assume la forma di sentenza ed è ricorribile per cassazione: la scelta è stata originata soprattutto dalla volontà di prevedere un unico modello di provvedimento, qualunque sia la soluzione della crisi, in linea con la previsione di un procedimento unitario nel quale confluiscono le opposte domande di regolazione della crisi o dell’insolvenza. In questo modo, non abbiamo più, come nell’art. 180 ult. co. l.fall., l’eventualità di una dichiarazione di insolvenza resa con sentenza contestuale alla pronuncia di un decreto di rigetto della domanda di omologazione; vi sarà un’unica pronuncia (eventualmente suddivisa in capi) emessa sempre in forma di sentenza, sulle diverse domande introdotte nell’unico giudizio, impugnabile unitariamente nei modi dell’art. 51 CCII. Peraltro, se si può reputare più coerente il modello ‘sentenza’ per l’omologazione del concordato rispetto al modello ‘sentenza’ per l’omologazione degli accordi, là dove l’assetto privatistico – non scalfito dalla teoria, per vero ancora controversa, della concorsualità degli accordi – avrebbe giustificato forse la persistenza di un provvedimento con forma di decreto, non vale neppure troppo la pena di indugiare su questioni nominalistiche se si guarda al fatto che nel concordato di liquidazione (art. 246 CCII) il tribunale decide con decreto e nel concordato coattivo (art. 314 CCII) decide invece con sentenza.
Se invece si vuole ricavare una qualche indicazione dall’adozione della forma della sentenza, se ne potrebbe desumere la volontà del legislatore di sottolineare che, qualunque sia la regola da applicare alla crisi del debitore (siano le regole più pervasive della liquidazione giudiziale, quelle ampiamente flessibili degli accordi di ristrutturazione o quelle intermedie del concordato preventivo), siamo dinanzi a un giudizio promosso da un soggetto che reagisce ad una situazione di crisi chiedendo l’apertura di un procedimento che deve chiudersi con un provvedimento che certifica quali sono le regole da applicare a quella specifica crisi. Così ragionando, allora, ne verrebbe ribadita la tesi secondo cui oggetto del giudizio di omologazione del concordato preventivo sia la verifica del corretto esercizio del potere del debitore di vedere regolata la propria crisi in base allo schema del ‘concorso concordatario’: un concorso vero e proprio, nel quale esiste un ordine di distribuzione verticale delle risorse che non è imposto dal giudice ma negoziato dalle parti e certificato dal tribunale.
Per la giurisprudenza il provvedimento emesso dal tribunale all’esito del giudizio di omologazione ha natura decisoria: ma non dimentichiamo che il giudice di legittimità, pur muovendo dalla premessa tradizionale per la quale  la “decisorietà” consiste nell’attitudine del provvedimento del giudice non solo ad incidere su diritti soggettivi delle parti, ma ad incidervi con la particolare efficacia del giudicato, declina quella idea individuando l’elemento discretivo tra ciò che è decisorio e ciò che non lo è, nella previsione di un contraddittorio con coloro che si ritengono avere interesse contrario alla decisione richiesta. Ed allora, dove il contraddittorio non è previsto (come avveniva per il decreto reso ex art. 162 l. fall., che contempla solo l’audizione del debitore), manca la controversia e dunque non può affermarsi che la sentenza decida su diritti soggettivi di parti contrapposte e sia destinato al giudicato.
L’argomento della ricorribilità per cassazione della sentenza non è decisivo per suffragare la tesi della natura contenziosa del procedimento: si può sostenere, infatti, che al termine del giudizio non si formi un vero e proprio giudicato, ma si realizzi semmai una forma di stabilità del provvedimento volta a rendere irretrattabili i diritti e gli interessi coinvolti nella procedura concorsuale. 
Questa stabilità, in un processo nel quale il presupposto è un dissesto e, dunque, una lesione inferta alle relazioni economiche tra più soggetti, giustifica largamente che non vi sia spazio per ripensamenti (cioè per la revoca del provvedimento).
Per concludere, la distinzione, confermata espressamente nell’art. 87 CCII, fra “piano”, “proposta” e “domanda”, chiarisce che il debitore formula una domanda giudiziale sin dal deposito del ricorso ex art. 40 CCII, e che è necessario tenere separato il profilo, per così dire, volitivo-giudiziale della domanda dal profilo conciliativo-negoziale della proposta. Col ricorso viene sollecitata l’apertura della procedura di concordato preventivo ma anche la sua omologazione, cui però si dà seguito solo per effetto della approvazione dei creditori. Per decidere sulla richiesta di omologazione il tribunale dapprima è tenuto ad accertare che sussistono i presupposti e questi in parte preesistono alla domanda e in parte si formano all’interno del procedimento. È solo per effetto dell’approvazione dei creditori, infatti, che si passa all’esame della domanda di omologazione. 
In questa prospettiva il giudizio di omologazione, che si innesta nel procedimento unitario, può essere visto come il contenitore nel quale si deve verificare, innanzi tutto, se è stato legittimamente esercitato da parte dell’imprenditore il potere di chiedere che la sua crisi venga regolata con gli strumenti del concorso concordatario; un concorso che, pur se rientra nelle forme di attuazione della responsabilità patrimoniale, è dotato di regole autonome, come si ricava ad esempio dal fatto che non sono esercitabili le azioni revocatorie concorsuali. 
Il potere di ottenere che la crisi sia regolata secondo la disciplina del concordato sussiste quando si verificano una serie di circostanze che costituiscono i presupposti perché quel potere sia riconosciuto. Non un vero e proprio potere di conformazione dell’altrui sfera giuridica, perché la modificazione dei diritti di coloro che si trovano in posizione antagonista presuppone che l’esercizio del potere intercetti il consenso della maggioranza di coloro che “subiscono” l’effetto. Se non fosse prevista la votazione si avrebbe ragione di sostenere che si tratti di un diritto potestativo del debitore di conformare la situazione altrui, da esercitarsi all’interno del processo, e perciò a necessario esercizio giudiziale; tuttavia, poiché la votazione è necessaria e deve dare un risultato di consenso alla proposta, non è neppure sufficiente che il diritto – che altri ordinamenti riconoscono anche ai creditori - sia esercitato nel processo per produrre i propri effetti. 
Vi sono, dunque, motivi che spingono nella direzione della cognizione su poteri (tesi ‘A’), come appare dal fatto che il procedimento si chiude con una sentenza ed è previsto il ricorso per cassazione; ma ve ne sono anche altri per non discostarsi, all’opposto, dalla tesi che scorge nel procedimento una fattispecie autorizzatoria-omologatoria (tesi ‘B’): e ciò perché il potere è sui generis, non c’è lesione di un diritto, né un mutamento di status, e perché la previsione espressa della ricorribilità per cassazione può dipendere sì dalla situazione soggettiva (tesi ‘A’) ma anche, più semplicemente, dalla esigenza di stabilizzazione degli effetti dell’accordo raggiunto (tesi ‘B’). In questo caso, si deve concludere che al giudice è rimesso semplicemente il controllo della legittimità della volontà delle parti (fissata nel patto da omologare) a protezione dei soggetti estranei all’accordo, e che la sentenza entra a far parte della fattispecie negoziale cui è chiamata ad attribuire efficacia. È la natura non meramente individuale degli interessi in gioco che spinge a non rinunciare al favore per una soluzione negoziata, ma insieme a negarle forza conclusiva del processo e a collegare invece tale conclusione al sopraggiungere di un provvedimento che, chiudendo il procedimento avviato con il ricorso ex art. 40, si combina ab externo con la volontà dei soggetti stipulanti.
44 . Il processo
Quando le maggioranze sono raggiunte e il concordato è stato approvato, a seguito della relazione del commissario resa ai sensi dell’art. 110 CCII che costituisce un documento informativo diretto al tribunale, viene fissata l’udienza in camera di consiglio per la comparizione delle parti e del commissario giudiziale. Non si tratta di una iniziativa officiosa perché tutto il procedimento è retto dalla domanda ex art. 40 CCII.
Il decreto di fissazione dell’udienza dev’essere iscritto presso l’ufficio del registro delle imprese dove l’imprenditore ha la sede legale (e se questa differisce dalla sede effettiva anche presso l’ufficio del luogo in cui la procedura è stata aperta) affinché qualunque interessato ne prenda atto e possa presentare opposizione; invece, ai soggetti che appaiono come i più probabili interessati a partecipare al giudizio di omologazione (commissario giudiziale ed eventuali creditori dissenzienti), il decreto deve essere notificato a cura del debitore. 
Se la notificazione non avviene, si deve ritenere che il tribunale debba ordinarne la rinnovazione; se la rinnovazione non viene effettuata il procedimento non può proseguire, e la domanda di concordato diviene improcedibile.
Diversamente da quanto dispone l’art. 116 CCII per il caso in cui il piano di concordato preveda operazioni societarie straordinarie di trasformazione, fusione e scissione, l’art. 48 CCII non prevede un termine per la fissazione dell’udienza ma solo il termine a ritroso per la proposizione di opposizioni. 
 Parti del giudizio di omologazione quali litisconsorti necessari, sono il debitore (e il terzo concorrente nella proposta là dove questa sia stata approvata) e la collettività dei creditori come contraddittore in senso formale; litisconsorti facoltativi sono il pubblico ministero (che ha facoltà di intervento ogni volta che ravvisi un pubblico interesse), i singoli creditori che si oppongono o che intervengono e i terzi che manifestano un interesse contrario all’omologazione, nonché quei creditori che si costituiscono ai sensi dell’art. 110 CCII al solo scopo di far risultare la modifica della propria adesione in voto contrario a seguito del mutamento delle circostanze in punto di fattibilità del piano di concordato.
Sono pertanto legittimati a proporre opposizione i creditori dissenzienti per espressa previsione di legge, ma anche ogni altro possibile interessato, inclusi i creditori privilegiati non votanti, soggetti che neppure rivestono la qualifica di creditori od ancora coloro che assumono di essere tali ma le cui pretese sono state contestate. 
Il procedimento di omologazione vede da una parte il debitore (e/o il terzo proponente) e dall’altra parte la massa (o la comunità) dei creditori, non i creditori uti singuli che divengono parti del giudizio solo quando si oppongono o si costituiscono.
La posizione del commissario giudiziale è particolare perché partecipa al procedimento non come parte (neppure in senso formale) ma come organo della procedura. 
45 . Le opposizioni
Coloro che intendono opporsi alla omologazione (art. 48 CCII) devono costituirsi nel termine perentorio – non soggetto a sospensione feriale – di almeno dieci giorni prima dell’udienza. Le opposizioni sono sempre contenute in comparse di costituzione con le quali i creditori sollevano difese che appartengono al novero delle eccezioni, e non delle domande.
Il commissario giudiziale partecipa necessariamente al procedimento come organo della procedura e non come parte titolare di una posizione giuridica autonoma salvo che non deduca un proprio diretto interesse giuridico: gli si chiede perciò il deposito di una relazione conclusiva, contenente un motivato parere col quale deve prendere posizione anche sulle eventuali opposizioni, nel termine di cinque giorni prima dell’udienza.
Al debitore o al proponente, è assegnato un ulteriore termine fino a due giorni prima dell’udienza per depositare memorie. 
Il contraddittorio tra le parti è così organizzato in modo più efficiente rispetto al passato, con la previsione di termini sfalsati per le opposizioni e per la memoria del debitore o del proponente, che, avendo a disposizione un termine più ampio, potranno replicare ad esse e tener conto anche del parere del commissario giudiziale. 
Una volta chiarito che oggetto delle opposizioni sono eccezioni, e non domande, e che con esse l’oggetto del processo non muta, in relazione alla presenza all’ampiezza dell’opposizione, è possibile anche in questa sede prospettare la distinzione tra eccezioni in senso stretto ed eccezioni in senso lato, eccezioni di rito ed eccezioni di merito. 
Possono essere considerate eccezioni di rito in senso lato quelle che attengono alla legittimità della regolare progressione delle fasi del procedimento e quindi rilevabili anche d’ufficio; le doglianze sul raggiungimento della maggioranza per l’approvazione proprio perché attengono alla validità della deliberazione vanno anch’esse qualificate come eccezioni sul procedimento e rilevabili d’ufficio. Sulle altre eccezioni si potrebbe discutere se abbiano natura di eccezioni in senso stretto o in senso lato. Ad esempio, un’eccezione di prescrizione, una decadenza, un vizio del consenso che ha determinato il voto favorevole alla proposta, sollevato dal creditore che voglia inficiare la validità dell’accordo, oppure l’annullabilità del contratto o i vizi della merce dalla cui consegna sia sorto il credito di cui si sia tenuto conto nel calcolo delle maggioranze, sono tutte ipotesi di eccezioni di merito e in senso stretto perché attengono al credito del singolo e non riguardano, se non di riflesso, la regolarità del procedimento (là dove mettono in discussione il risultato raggiunto in sede di adunanza). 
Sono, invece, certamente eccezioni in senso stretto, anch’esse di merito, quelle che attengono alla convenienza - vista la volontà esplicita del legislatore di attribuire al giudice il compito di verificare la convenienza solo quando vi è un’opposizione di un creditore dissenziente appartenente ad una classe dissenziente o della minoranza qualificata di dissenzienti (almeno il venti per cento) – e alla assenza di pregiudizio. Deve reputarsi eccezione in senso lato quella sulla manifesta inidoneità del piano concordatario, se si ritiene che l’”infattibilità” debba essere letta come fatto impeditivo, e non già la “fattibilità” come fatto costitutivo della domanda, e ciò perché diversamente si onererebbe il debitore di una prova su un fatto negativo.
Nel regime della legge fallimentare il compimento dell’attività istruttoria era riservato alle sole ipotesi in cui fossero state proposte opposizioni. In verità, la lettura corrente era nel senso che l’attività istruttoria prescindesse dalla presenza di opposizioni, sul presupposto che nei procedimenti a forma camerale l’attività istruttoria è rimessa alla iniziativa officiosa del giudice, che può assumere informazioni. In tal senso si era, dunque, opinato che una attività istruttoria potesse essere svolta in ogni ipotesi. 
Ora l’art. 48, comma 3°, CCII regola in modo autosufficiente la fase dell’omologazione stabilisce che in ogni caso il tribunale procede all’istruttoria, assunti i mezzi di prova richiesti dalle parti o disposti d’ufficio. La scelta, coerente con il fatto che la presenza o meno delle opposizioni non muta la natura del giudizio, è stata quella di abbandonare il percorso binario, derivante dall’essere state, o meno, presentate opposizioni, uniformando la disciplina sul modello della legge previgente più prossimo possibile alla cognizione piena ed esauriente, il che consente di dire che il richiamo al procedimento in camera di consiglio non è volto a consentire l’applicazione del regime di cui agli artt. 737 ss. c.p.c. ma solo ad evocare le modalità della decisione. Anche in assenza di opposizioni, infatti, ci sono questioni rilevabili d’ufficio che ostano all’omologazione e per i cui fatti sottostanti il tribunale può avere necessità di assumere la prova, a patto che le circostanze di fatto su cui basa il proprio giudizio risultino in qualche modo dagli atti di causa, non potendosi superare il divieto di cui all’art. 97 disp. att. c.p.c.
Pendente il giudizio di omologazione e sino a che il procedimento non transita in decisione i creditori possono proporre la domanda di liquidazione giudiziale (art. 40, 9° comma CCII) o (i) presentando la domanda all’interno del procedimento (unitario) di concordato oppure (ii) presentando una domanda autonoma che il tribunale riunisce necessariamente anche d’ufficio al procedimento già pendente. 
Per la domanda autonoma non sono previste preclusioni, anche se ovviamente la presentazione del ricorso per la liquidazione giudiziale quando il procedimento avente ad oggetto la domanda di uno degli strumenti di regolazione è in grado di impugnazione rende necessario individuare il meccanismo di coordinamento che riteniamo debba essere quello di cui all’art. 337, 2° comma, c.p.c., fermo restando il diverso profilo che pertiene al rapporto tra risoluzione del concordato e liquidazione giudiziale (art. 119 CCII).
46 . La sentenza
Esaminato ciò che pertiene al controllo del giudice (art. 112 CCII) e alla specialità del giudizio nel caso di operazioni societarie straordinarie (art. 116 CCII), si tratta ora di esaminare il contenuto della decisione. 
La decisione è vincolata: il tribunale può soltanto omologare il concordato o rigettare la domanda; non può omologare il concordato modificando le condizioni della proposta sulla quale vi è stato il consenso dei creditori. Non la può modificare sia perché esiste una base negoziale che esprime una sfera di autonomia privata che non può essere intaccata (ragione sostanziale), sia perché la proposta di concordato è contenuta in un ricorso che ha anche il valore di domanda giudiziale, sì che nel rispetto del principio dispositivo (art. 112 c.p.c.) il giudice non può accogliere una domanda che non è stata formulata. 
Quando il tribunale ritiene che la richiesta di omologazione non sia accoglibile, con sentenza respinge il concordato (art. 48 CCII). In tal caso, accertata la sussistenza dei presupposti di cui agli artt. 2 e 121 CCII, su istanza dei soggetti legittimati dichiara l’apertura della liquidazione giudiziale. 
Il diniego di omologa, non seguito dalla liquidazione giudiziale, travolge tutti gli effetti che erano conseguiti dal decreto di apertura della procedura – anche con riguardo alle misure protettive e cautelari concesse (art. 55, comma 7°, CCII), fermi restando i principi sulla salvezza degli atti legalmente compiuti (v., artt. 53 CCII) e sull’esenzione dalla revocatoria (art. 166, 3° comma, lett. e CCII). 
Quando sussistono i presupposti per accogliere la domanda il tribunale omologa il concordato con sentenza. La decisione è immediatamente esecutiva e quindi produce effetto anche in pendenza delle eventuali impugnazioni di cui all’art. 51 CCII. Il provvedimento di omologa è notificato alle parti del processo ed è iscritto nel registro delle imprese, iscrizione che produce effetti verso i terzi. 

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